P. Paolo Dall’Oglio S.I., testimone del dialogo in Siria (prima parte).

Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.

Cenni sulla vita di padre Paolo[1].

Padre Paolo Dall’Oglio è nato a Roma nel 1954 ed è il quarto di otto fratelli. Nei vissuti di Paolo i tre fratelli maggiori creavano un gruppo a se stante, mentre la nascita dei gemelli e delle sorelle più piccole, sembravano attrarre maggiormente l’attenzione della mamma che comunque in maniera discreta e rassicurante lo ha sempre accompagnato con l’amorevolezza che le era propria. Raccontandosi nel periodo dell’infanzia, si ricorda come di un bambino irruente e incline alla solitudine e, quella che per i suoi educatori scolastici veniva definita come una manifestazione di un ‘bambino difficile’ lui, in diverse occasioni, l’ha chiamata ‘ipersensibilità’.

Ha vissuto la sua adolescenza come tanti del suo tempo, con gli amori intensi che contraddistinguono il periodo, con l’impegno politico che veniva assunto come totalizzante alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, con le alterne questioni di fede, scosse dalle vicende di una Chiesa che si stava rinnovando in molte delle sue forme. Dopo la maturità, per una serie di circostanze, il viaggio insieme con tre suoi amici, lo conduce in Turchia dove ebbe il primo contatto in assoluto con l’oriente musulmano. Da lì, attraversando la Siria, il passo è breve per giungere fino Gerusalemme, pensarono. Ma non vi arrivarono a motivo di un fermo da parte degli israeliani che li bloccarono al fiume Giordano, in Giordania.

Alla fine del 1974, si rivolge a padre Giuseppe della Compagnia di Gesù (gesuiti), cappellano dell’Università, determinato com’era e convinto da alcuni episodi particolarmente importanti di quel periodo, a diventare gesuita. Dopo il servizio militare e prima di entrare in noviziato, decise di andare finalmente a Gerusalemme per visitare diversi luoghi della Terra Santa. Meditò profondamente il senso dell’incarnazione di Gesù in un popolo, quello ebraico, coltivando l’idea che anche la Chiesa ‘doveva potersi incarnare radicalmente in tutti i popoli’.

Nel 1975 inizia il suo cammino di noviziato e, durante il primo dei due anni, matura cinque punti che diventeranno come dei cardini del suo percorso di religioso:

1. Continuare con gioia il percorso intrapreso nella Compagnia di Gesù;

2. Mantenere intatta la disponibilità ad andare ovunque nel mondo con coraggio e fede (la parola ‘Islam’ gli apparve chiara).

3. Andare verso i poveri, i diseredati ed anche gli ‘assetati di Dio’.

4. Superare il desiderio di successo, di realizzare cose grandi e importanti, a vantaggio della capacità di imparare sempre più ad essere ‘un piccolo servitore, un umile operaio al lavoro nella vigna del padrone’.

5. Partecipare alla croce del Signore.

Durante il prosieguo del secondo anno, progressivamente elaborò il desiderio di Islam e che ciò poteva realizzarsi, passando attraverso l’ebraismo e attraverso la comprensione della profondità dell’inculturazione del Verbo nell’ebraicità. Quel desiderio, divenne il sogno di far coesistere le tre religioni monoteistiche in se stesso.

La Compagnia di Gesù nella sua storia è sempre stata posizionata negli avamposti della Chiesa. Ha sentito e sente l’impegno per essa tanto che il suo fondatore, Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, ha definito delle ‘regole’ circa il ‘sentire cum ecclesia’[2] come un modo per essere più intimamente legata ad essa. San Francesco Saverio, Matteo Ricci, le Riduzioni del Paraguay, sono solo alcune delle persone e delle situazioni in cui i gesuiti, in virtù della propria spiritualità e della loro missione, hanno offerto il proprio carattere missionario in nuovi territori culturali e spirituali. All’interno della Chiesa continuavano e continuano a crescere le interpellanze di un dialogo con le altre espressioni delle fedi cristiane e con le altre religioni. I gesuiti stessi hanno contribuito e contribuiscono con diversi autorevoli pensatori e teologi in questa direzione, alla ricerca di nuove vie di dialogo e di possibili incontri.

Il percorso di Paolo nei gesuiti viene accolto e sostenuto Attraverso un Assistente del Padre Pedro Arrupe[3]. Così Paolo, dopo aver approfondito la sua conoscenza del francese facendo il cameriere a Parigi, fu inviato in Libano per imparare l’arabo. Di lì fuggi nel 1978, costretto dagli eventi, mentre imperversava la guerra e visse questo come una cocente sconfitta personale. Tuttavia, studiò filosofia, arabo a cultura islamica a Napoli e ottenne una borsa di studio dal Ministero della Cultura israeliano che gli permetteva di andare a Gerusalemme per imparare l’ebraico. Al termine di questi studi promise di offrire ‘tutta la sua vita per portare la pace tra i figli di Abramo’. Successivamente, fu inviato a Damasco dove, mentre si preparava al sacerdozio, scelse di appoggiarsi a una Chiesa cattolica d’Oriente scegliendo il rito siriaco che, a suo avviso, gli sembrava più vicino al ‘respiro’ della preghiera musulmana.

Dal 1982, la storia di padre Paolo s’intreccia con quella di Mar Musa ed egli stesso così racconta:

“Durante l’estate del 1982, mentre ero in viaggio nel Vicino Oriente, scoprii una vecchia guida della Siria pubblicata nel 1938. Sfogliandola, trovai un paragrafo che descriveva un monastero cristiano, abbandonato da due secoli in mezzo al deserto. Il luogo si chiamava Deir Mar Musa el- Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino[4]). Per portarci i viaggiatori, la guida proponeva di noleggiare un mulo a Nebek, la città più vicina, e di percorrere una pista attraverso il deserto. Il tragitto durava tre ore. L’idea mi piacque infinitamente”[5].

Trovò un luogo abbandonato, distrutto… ma anche pieno di ‘presenze’, di personaggi affrescati e di essi, o di ciò di essi rimaneva, che gli chiedevano che cosa ci facesse lì. Era notte, era solo e, prima di tornare a Roma, cercava domande e risposte nel deserto e nel silenzio.

Da allora, la sua vita di prete e di sacerdote della Compagnia di Gesù, ha conosciuto momenti belli e momenti difficili. Menzioniamo tra i tanti, il ‘terzo anno di probazione’[6] nelle Filippine, dove ebbe contatto, tra l’altro, con una porzione di mondo medio-orientale non arabo. Di ritorno da quell’esperienza, si fermò in India dove risuonò in lui lo spirito del Mahatma Gandhi che rifiutava qualsiasi spartizione dell’ex colonia inglese per motivi religiosi: molti hanno definito il padre dell’India come una sorta di avanguardia spirituale non solo per quel territorio, ma per tutta l’umanità.

Per padre Paolo, in tante circostanze, si sono aperti conflitti interiori che lo hanno squarciato da dentro, tra l’obbedienza ai suoi superiori e quella alla sua coscienza. In diversi momenti critici ha tenuto fede a se stesso e alle proprie intuizioni. Come quando di ritorno dalle Filippine e dall’India, contrariamente a quanto indicato dai suoi superiori, dopo 10 anni di cura verso Mar Musa, decise di stabilirsi definitivamente lì. I conflitti, padre Paolo li viveva anche in alcune relazioni del posto che poco gradivano quanto stava avvenendo in quel monastero che sembrava definitivamente morto nel deserto e che invece tornava in vita proprio grazie alla sua caparbietà. Così, anche al di fuori del suo travaglio interiore e in mezzo alle accese dispute che venivano sollevate dall’opera che si andava compiendo, il monastero di Mar Musa ha innescato un percorso possibile che altri, con lui e dopo di lui, non hanno esitato ad intraprendere.


[1]I tratti di questo breve profilo sono ricavati da G. DE MONTJOU, Mar Musa, Un monastero, un uomo, un deserto, Paoline, Milano, 2010.

[2] Cf Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 352-370.

[3] In quel periodo Preposito Generale dell’Ordine dei gesuiti.

[4] Di lui si narra che fosse stato un principe, figlio di un re di Etiopia e che rinunciò al suo regno per vivere da eremita. Dopo essere divenuto monaco scelse come dimora una delle grotte che circondano il monastero.

[5] P. Dall’Oglio, L’uomo del dialogo, a colloquio con Guyonne de Montjou, Paoline, Milano, 2014, 21.

[6] Per i gesuiti è l’anno che completa la lunga formazione attraverso un nuovo studio dei testi che riguardano l’Ordine, la spiritualità con un nuovo mese ignaziano insieme ad una esperienza apostolica pastorale.