P. Paolo Dall’Oglio S.I., testimone del dialogo in Siria (quarta ed ultima parte).
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
Conclusioni.
Al termine delle considerazioni presentate in queste pagine, è possibile riprendere alcuni passaggi, come degli attrezzi, degli strumenti da utilizzare in un laboratorio di virtù. Delle virtù, se ne sente parlare sempre meno nel linguaggio ordinario, come se fosse un termine anacronistico e che invece appare sempre più necessario. Possono le virtù di padre Paolo, del monastero di Mar Musa, essere utili al nostro vivere quotidiano, per questo nostro mondo?
Non possiamo affidare questo momento storico così importante a pochi dilettanti, vittime, in diverso modo, di paure più o meno esplicite cui spesso, proprio per queste paure, tendono ad aggredire, piuttosto che ad ascoltare. Non possiamo farci annoverare nemmeno fra quelli che presi dal vortice del quotidiano, dimenticano se stessi. L’appello a formarsi senza farsi imbonire, a sapere senza dare per scontato, a disporsi a conoscere l’altro senza chiudersi nei propri pregiudizi, a riconoscere valori comuni a tutti, credenti e non, deve e può avere risposta in tutti gli uomini che vogliono essere migliori, che applicano semplici virtù di buon senso, incamminati verso il bello, il bene, il giusto, il vero… verso un ‘ethos globale’ di riferimento: ci sono molte persone su questa strada. È questo un ‘monachesimo’ possibile che corregge i falsi appelli all’andare via da se stessi, verso consumismi, dispersioni esistenziali, superficialità. In un monastero interiore, spirituale in dote ad ogni uomo, dove poter essere in ogni città, in ogni luogo di vita.
Occorre mantenere questo spazio come il più ambito.
Chi si sente interpellato trova in questo itinerario, anche un luogo, esteriore a sé ma che lo riconduce costantemente a se stesso: è l’esperienza di tutti i giorni, la vita quotidiana del lavoro, della famiglia, delle relazioni. Non c’è pratica migliore che imparare a farsi coinvolgere da ciò che accade per esprimere il senso di questo ‘andare verso’, poiché un’etica globale agisce tutti i giorni in termini locali, nelle righe della storia personale di ciascuno. È qui che avviene il primo vero laboratorio dove la parola presa, ascoltata e detta, si declina in realtà. È qui che sfumano le paure dell’altro, il pregiudizio. Un tempo costante, maggiore, dove l’incontro avviene in vicinanza e non sempre è desiderato, scelto o voluto. L’incontro vero, se non lo si sfugge, riconduce a me. L’altro in qualche modo mi ‘appartiene’ e, nella sua diversità, posso riconoscere il mio espresso e quanto ancora mi resta da svelare. L’altro può rendermi migliore in una relazionalità che è sempre da compiersi perché ancora inedita. Dall’incontro con l’umanità più diversa fino agli incontri con gli avvenimenti e il creato: tutto può riportare me stesso ad un nuovo ‘fare’. Ripartire dall’empiria è anche questo. In questo altro, c’è il musulmano, c’è l’ebreo… Questi uomini che si ‘fanno’ incontro, attraverso la loro esperienza umana possono proporre e progettare anche Istituzioni nuove, soprattutto quelle che fin d’ora si muovono per conoscere e far conoscere l’altro che viene così come è, nelle vie di razionalità relazionale.
Perché questo incontro avvenga, il dialogo è un metodo. Il vantaggio di uno strumento è che oltre a velocizzare i passaggi del tuo lavoro, mentre ti rendi specialista, non ti lascia più e non lo lasci più. Gli incontri fatti di dialogo sono intensi, vivono di empatia, mettono ciascuno degli interlocutori sempre in una posizione nuova, ri-generante.
Può il terrazzo di Mar Musa, dove s’incontrano all’imbrunire gli ospiti proveniente da vari luoghi, di diverse religioni, essere lo spazio di dialogo come proposto in queste pagine, più dei canali virtuali della globalizzazione? Può quel terrazzo di Mar Musa essere uno spazio laboratoriale per le terrazze e per le piazze d’Europa e del mondo?
Papa Francesco si fa interprete di questo metodo del dialogo:
“Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni»[1].
E ancora, l’attuale Pontefice:
“La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. […] Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale”[2].
Senza dialogo c’è un terrore che rimane dentro, che può rimanere lì o può manifestarsi fuori, nell’espressioni più disparate e, a volte, disperate. Il dialogo interiore come una forma di preghiera, espressione di un incontro, dell’Incontro, è fonte di una buona operosità. La concretezza del lavoro comune a Mar Musa, può essere segno di un’operosità dialogante necessaria che segue le nostre liturgie. È un fare pratico con-creativo, costruttivo e sociale che rende visibile l’esperienza dell’Incontro e degli incontri. Incontri che si celebrano sul terrazzo del Monastero per celebrare un’amicizia fraterna che, alla sera della giornata canta ‘come è bello stare insieme come fratelli’, nonostante le fatiche appena trascorse.
Paolo Dall’Oglio, partecipando alla Marcia per la Pace di Lecce, il 31 dicembre 2012, condivise il sentimento che lo univa al popolo siriano e, sebbene espulso, maturava l’idea di ritornare nella terra martoriata per ‘amore del suo popolo’. Era quel popolo che lo richiamava alla responsabilità personale, più che la paura di tornare, più che la possibile restrizione della sua libertà, più che la morte stessa che poteva subire, narrava che non poteva non testimoniare quanto accadeva in Siria, non solo in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto in quella terra martoriata. Dialogava qui, ma sentiva la responsabilità sociale di dialogare lì, anche se non voluto dal regime. Ci insegna così ancora oggi un modo nuovo di contemplare, di unirsi alla preghiera-grido delle vittime dell’odio generato da interessi di parte, ci dice di un’accoglienza abramitica professata e possibile anche se, purtroppo, non abbiamo più sue notizie.
Il prezzo della sua assenza vale il biglietto del nostro impegno a cercare e trovare vie di Dialogo in ogni nostra circostanza.
[1] Evangelii gaudium, n. 239.
[2] Papa Francesco, al conferimento del Premio Carlo Magno, il 6 maggio 2016.
P. Paolo Dall’Oglio S.I., testimone del dialogo in Siria (terza parte).
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
La singolarità del monastero di Mar Musa Alhabashi, San Mosè l’abissino.
La vita monastica di questo luogo risale al VI secolo e sarebbe stata legata al rito siro-antiocheno. Dall’iscrizione sul muro si legge che la chiesa attuale del monastero è del 450 dell’Egira (1058 d.C.).
Caratteristica dell’iscrizione sono le parole tipicamente coraniche <<In nome di Dio il Misericordioso, il Compassionevole>>. Nel XVI secolo il monastero fu in parte ricostruito e ampliato anche se poi fu abbandonato dai monaci che vi si riunivano la domenica mattina e che forse trovavano una qualche difficoltà a farlo in quelle condizioni. Verso il 1850 la proprietà passò all’Eparchia siriaca-cattolica di Homs, Hama e Nebek e la parrocchia locale cercò di conservarla al meglio poiché cristiani e musulmani spesso vi si recavano per visite devozionali. Particolare rilievo assumono gli affreschi e, nel terzo strato, dopo gli ultimi restauri, si legge:
“Terminato nell’anno seicentoquattro [dell’Egira, 1208 d.C.] per mano del decoratore Sergio figlio del prete Ali, figlio di Barran. Dio abbia pietà di lui e di tutti coloro che vengono in questo oratorio benedetto e fa’ che siano guariti. Amen”[1].
Come dicevamo, da diversi lustri padre Paolo Dall’Oglio si impegna per ottenere fondi al fine di recuperare pienamente la struttura, far giungere l’acqua, l’elettricità, rianimare l’intera vallata. In vario modo ha cercato di coinvolgere il governo siriano e anche quello italiano, recuperando una parte dei fondi necessari che pure arrivano da diversi benefattori del territorio e anche dall’Europa. Si è mosso anche nella direzione del riconoscimento formale di questa esperienza, non sempre facile ma che, comunque, inizia a ricevere i primi riscontri[2].
La comunità è composta[3] da una decina di persone di diverse nazionalità di cui due presbiteri e due donne. È quindi mista, interreligiosa, consacrata al dialogo islamico-cristiano.
La vita comunitaria inizia alle ore 7 del mattino per bere il matè[4]; dalle ore 7:30 alle ore 9:15, preghiera e catechesi in chiesa; alle 9:30 prima colazione con gli ospiti di un giorno, di una settimana, di un mese, di un anno… si prosegue con i lavori e le mansioni di ciascuno fino alle ore 14:30. Dopo il pranzo ognuno è libero anche se molti proseguono i lavori iniziati al mattino. Alle ore 19 il monastero si immerge nel silenzio più assoluto per l’ora di meditazione. Segue la messa in arabo. Dopo la cena sobria, le giornate si concludono con momenti di fraternità dove, pur provenendo da parti diverse, chi ci è stato dice che ci si capisce lo stesso.
Ciò che caratterizza la comunità monastica al-Khalil, può essere sintetizzata in tre priorità e un orizzonte[5]:
1. la vita contemplativa
2. l’impegno nel lavoro manuale
3. l’ospitalità abramitica.
La prima priorità, la vita contemplativa, trae ispirazione dalla tradizione siriaca e dal contesto vicino orientale e arabo islamico.
L’impegno nel lavoro manuale parte dall’esempio della famiglia di Nazareth, che unisce in sé l’esperienza ‘conclusa’ dove si unisce corpo e spirito, la materialità e l’orizzonte del Regno.
In ogni epoca i monaci hanno praticato l’ospitalità; “ospitalità fatta di servizio, misericordia e perdono, ospitalità di saggezza e direzione spirituale, ospitalità della mensa comune e del silenzio, ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel bisogno, il suo carisma particolare e la sua sete spirituale”; un’ospitalità abramitica.
L’orizzonte è quello di una speciale consacrazione all’amore di Gesù Redentore per i musulmani. In questa cornice, la comunità monastica si pone come ‘lievito evangelico nella comunità musulmana’ con uno spirito di ‘mutuo amore nella considerazione e nel rispetto reciproco’ tenendo con giusta attenzione questo lavoro di dialogo che consente anche agli stessi cristiani di avere un modo in più per restare in quel territorio.
Nella direzione di questa considerazione e nel rispetto reciproco, padre Paolo riconosce tre funzioni dell’islam[6].
La prima riguarda la produzione delle grandi Scritture. Attraverso il Corano è come se si fosse completata una tappa umana. Non che non vi siano nuovi testi sacri o gruppi religiosi, ma questi appaiono piuttosto come uno ‘sciame sismico’ che segue un grande terremoto. In questo senso Muhammad è l’ultimo dei profeti e “ciò non vuol dire che la dimensione profetica dell’umanità si è esaurita per sempre, al contrario. Deve essere riscoperta ed è una responsabilità condivisa da tutti”.
La seconda funzione vede la ‘fede come rivelazione naturale’. Riprendendo Louis Massignon in Les Trois prières d’Abraham, che dice: “Se Israele è radicato nella speranza, e la Cristianità votata alla carità, l’Islam è centrato sulla fede”, il musulmano vede Abramo come la persona a cui Dio affida una rivelazione. Abramo è l’amico di Dio ed è un modello di un’alleanza in cui la fiducia, diciamo reciproca, è di ogni giorno, di ogni momento. Ma è anche l’alleanza come obiettivo finale, escatologica e, quindi, di fede.
Vi è poi una terza funzione che è quella della sfida. L’islam da sempre per i cristiani è stato percepito come una sfida. Ma possiamo dire che la stessa cosa sia accaduta ed accada per il mondo dove vivono più numerosi i fedeli dell’Islam quando osserva il mondo occidentale (nel proprio immaginario ‘cristianizzato’), che si avventa nelle dinamiche della propria realtà araba ad esempio. Padre Paolo ci fa riflettere anche in una direzione diversa quando ci invita a leggere la storia del medio evo, per esempio. Come sarebbe andata a finire la storia, quale deriva avrebbe avuto la fede cristiana senza il ‘limitare’ del mondo dei seguaci di Mohammed? Parla di quel mondo cristiano, rappresentato in diversi tra affreschi e mosaici, di una forza imperiale e totalizzante impressionante, certa non di matrice strettamente evangelica.
Quel limite, per gli uni e per gli altri, rappresenta un’opportunità per ritrovarsi nella propria fede e nell’incontro con l’altro. La sfida iniziale non è dunque quella di convertire o l’uno o l’altro, ma è quella di convertirsi all’opera di Dio[7].
Le risposte non verranno da archeologia o storia, da dogmi o teologie, dalle sole istituzioni o dalle religioni; le risposte saranno date da incontri che faranno storie e teologie con uomini religiosi nelle istituzioni. Incontri che sono già iniziati a Mar Musa, come nel mondo, e che hanno bisogno di maggiore continuità, oltre che di essere rappresentati in modo più deciso.
Padre Paolo ha voluto coniare un termine che nella comunità di Mar Musa riecheggia costantemente: Islamofilia[8]. Al contrario di islamofobia, paura per l’islam (per tanti aspetti deriva fobica accecante), islamofilia completa in qualche modo il percorso iniziato con il proprio viaggio verso l’Islam; potrebbe diventare paradigma di un nuovo viaggio personale verso cui appuntare altrettanto nuove esperienze di dialogo.
Negli scritti e nelle interviste rilasciate da padre Dall’Oglio, egli ribadisce che Gesù non ha fondato immediatamente una religione. All’interno del mondo ebraico si è spinto oltre la legge reinterpretandola, dandole una funzione nuova che superasse il legalismo e il ritualismo fine a se stesso. Allo stesso modo la Chiesa, ha reinterpretato la vita stessa di Gesù spingendosi oltre quel mondo proprio grazie allo Spirito di Gesù, incarnandosi in culture diverse. Essere cristiani non significa inserirsi in un meccanismo di proibizioni e di sterili ritualità. Mediante la Chiesa il cristiano si avvia nel mondo non come straniero, ma come cittadino.
“Ma da dove vengono questa autorità di Gesù, questa libertà che lo conduce a reinterpretare la Legge e i profeti e a pretendere di dare loro compimento? Esse risiedono nella sua relazione col Padre nello Spirito. Per il discepolo di Gesù, si tratta di scendere al fondo di sé, fin dove si trova il carattere impresso nell’anima dal sacramento del battesimo. Là l’anima è stata unità alla consapevolezza di sé di Gesù di Nazareth. (…) Gesù è l’atto di Dio che va incontro all’uomo e mediante l’iniziazione cristiana, soprattutto mediante i sacramenti, il discepolo ha accesso dall’interno alla vita di Gesù”[9].
C’è un primo Incontro che rende possibile gli altri incontri. Questo Incontro richiama la prima priorità della comunità monastica di Mar Musa. È posto a principio e cardine dell’esperienza di padre Paolo. È il carattere, è il sigillo del cristiano che non può aver paura dell’incontro con chiunque altro, dopo essere stato ed essere con l’Altro. La cosa più entusiasmante è che è possibile vivere questo non in modo estemporaneo e saltuario, ma nella ferialità, nel quotidiano, con una possibilità infinita di ripetersi, di allontanamenti e di riavvicinamenti.
L’impegno del lavoro manuale offre una concretezza e, come dei monaci in città, è come se ogni giorno, in tutte le mansioni ordinarie, queste possibilità d’incontro, apparentemente così lontane nello spirito, fossero continuamente rese possibili per merito delle relazioni quotidiane. Più queste relazioni diventano incontri decisamente umani, più si diventa divini. Più si rinnova quest’esperienza, più si diventa rinnovati. L’altro, trova spazio nell’’ospitalità abramitica’ di un dialogo.
“Un dialogo di successo lascia un senso di comunione: ciò che sembrava contrapposto è ormai in armonia. Ciò che era diverso è diventato complementare. Ciò che faceva paura da quel momento in poi nutre la fiducia. Ciò che era da perdere, i pesi reciproci, è perso per davvero. Alla fine di un buon dialogo, ognuno copre il peccato dell’altro, perdona se stesso. Non siamo più estranei gli uni agli altri: formiamo un solo popolo.
Il mondo moderno è un’arena di sordi che parlano tra loro. Come in quei talk show in televisione dove il presentatore si diverte ad attivare la follia verbale degli interlocutori, le parole del mondo sgorgano ma nessuno le ascolta.
Se questi discorsi non ci interessano, se non ci attirano, è perché proviamo un senso di insofferenza, che proviene da una paura profonda, lontana: quella che Dio ci abbandoni, che non ci sia fedele. Ecco perché cerchiamo di fare meglio di lui, proteggiamo le nostre identità, i nostri particolarismi, ci attacchiamo a quello che sappiamo.
Ma Dio è fedele! Ogni disegno di vita ha una bellezza straordinaria”[10].
[1] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, Jaca Book, Milano, 2013, 2-3.
[2] Nel febbraio del 2006, il Vaticano ha approvato la Regola della comunità. A novembre la Fondazione euro-mediterranea ha consegnato il premio Anna Lindh per il dialogo fra le culture; nel 2009 padre Paolo riceve la laurea honoris causa dall’Università di Lovanio e di Leuwen per l’azione della comunità a favore del dialogo islamico-cristiano.
[3] Attualmente, oltre a Mar Musa, la comunità ha un monastero in prossimità della città Al-Qaryatayn in Siria (dove in questo periodo sono accolti molti rifugiati) e uno nel Kurdistan iracheno; da poco la comunità dei postulanti ‘San Salvatore’ di Cori (LT) in Italia è diventata anch’essa monastero.
[4] Si tratta di un infuso che si beve prevalentemente in America latina ed in Siria.
[5] Cf P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, op. cit., 185.
[6] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, 30-31
[7] Ib., 85
[8] Ib., 178.
[9] Ib., 25
[10] P. Dall’Oglio, L’uomo del dialogo, a colloquio con Guyonne de Montjou, 199.
P. Paolo Dall’Oglio S.I., testimone del dialogo in Siria (seconda parte).
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
La Siria e la questione siriana.
Dopo la fine dell’Impero ottomano, le autorità coloniali britanniche e francesi si riuniscono a Sanremo, in Italia, e spartiscono i territori del medio oriente in Mandati. Nel processo di divisione, viene stabilito che la Siria sarà sotto il mandato francese.
La posizione geografica strategica, per interessi economici e militari, ha sempre creato grandi tensioni in alleanze che oggi appaiono molto variabili a seconda dei diversi fini, espliciti e meno espliciti.
Nel 1946 le ultime truppe francesi lasciano il territorio nazionale e viene proclamata l’indipendenza della Siria. Il 17 aprile diventerà giorno di festa nazionale. Nel 1963 un colpo di stato condotto dal generale sunnita Ziad Hariri, porta al potere il Consiglio nazionale di comando della rivoluzione e il suo presidente Lu’ayy Atassi, del partito Baah. Il 13 novembre del 1970, Hafen al-Asad prende la guida del paese, spodestando la dirigenza del suo partito. Dal 1976 (e fino al 2005) la Siria interviene direttamente nella guerra in Libano e sosterrà in qualche modo la strage di Sabra e Shatila del 1982. Farà parte della coalizione occidentale che combatterà Saddam Hussein durante la prima guerra del golfo (1990-1991).
All’inizio del 1994 muore Bassel al-Asad figlio di Hafen, che era stato designato alla guida del paese (sebbene secondogenito ma più incline alla politica del primogenito). Così alla morte di Hafen al-Asad, nel 2000, sarà Bashar a succedergli, nonostante non fosse stato la prima scelta del padre sebbene primogenito.
Nel marzo del 2011 iniziano le prime manifestazioni pubbliche contro il regime, in seno al più ampio movimento conosciuto in occidente come ‘primavera araba’, dando vita ad una guerra civile complessa, così come complesse sono le vicende narrate e non. Di fatto, nel 2012 le manifestazioni si tradurranno in scontri fino ad una guerra civile aperta dove Aleppo e non solo, rappresenta ancora oggi l’apice delle violenze tutt’ora in corso.
Il presidente siriano, in una intervista rilasciata al quotidiano americano The Wall Street Journal il 30 gennaio 2011, afferma che la Siria è un’eccezione rispetto alle rivoluzioni di Egitto, Tunisia e Yemen.
“La Syrie est en effect une ‘exception’. Mais elle est également une ‘exception’ si l’on observe l’attitude arabe et international â son égard, qui oscille entre hésitation, division, conflits et impuissance à régler la situation”[1].
Di fatto, ad oggi, non si è addivenuti a nessun risultato significativo a causa dei veti incrociati dei paesi arabi in qualche modo coinvolti, della Turchia, della politica estera europea e francese a seguito di quella USA e della Russia. Gli attori internazionali che intervengono, o non intervengono, a seconda degli interessi che li muovono, lasciano scorrere ancora sangue innocente anche con l’uso ripetuto di armi non convenzionali e proibite dai diversi trattati internazionali.
La Siria non è solo un serbatoio di petrolio, ma la sua posizione è un crocevia di interessi dicevamo. Se da una parte, per esempio, Arabia Saudita e Qatar hanno armato siriani e mercenari per evitare un paese democratico nella zona[2], dall’altra, sempre ad esempio, c’è un immobilismo diplomatico tra Israele e Siria per un confine conteso dal 1967 dove nessuno dei due attori arretra di un millimetro e la strategia americana ne fa uno dei suoi baluardi in medio oriente[3]. E gli esempi potrebbero essere moltiplicati per tutti gli intrecci di veti e controveti ora da parte di uno, ora da parte degli altri.
In questo scenario, il 29 luglio 2013, viene rapito padre Paolo Dall’Oglio, che precedentemente si era espresso in maniera critica verso le posizioni assunte da Bashar al-Asad nella gestione evoluta della primavera araba siriana. Per Paolo era importante il popolo e la possibilità che questo potesse esprimersi in maniera democratica, mentre esso diventava sempre più oggetto di sofferenza.
Gli ultimi eventi di questa primavera, ribadiscono la complessità della situazione e la sofferenza cui continua ad essere sottoposto il popolo siriano, soprattutto nelle persone più deboli come i bambini, le donne, gli anziani…
[1] Z. MAJED, Syrie la Révolution orpheline, L’orient des livres, France, 2014, 23.
[2] Cf R. CRISTIANO, Medio oriente senza cristiani, dalla fine dell’impero ottomano ai nuovi fondamentalismi, Castelvecchi, Roma 2014
[3] Cf L. GRUBER, Prigionieri dell’Islam, Terrorismo, migrazioni, integrazioni: il triangolo che cambia la nostra vita, Rizzoli, Milano, 2016, 184.
P. Paolo Dall’Oglio S.I., testimone del dialogo in Siria (prima parte).
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
Cenni sulla vita di padre Paolo[1].
Padre Paolo Dall’Oglio è nato a Roma nel 1954 ed è il quarto di otto fratelli. Nei vissuti di Paolo i tre fratelli maggiori creavano un gruppo a se stante, mentre la nascita dei gemelli e delle sorelle più piccole, sembravano attrarre maggiormente l’attenzione della mamma che comunque in maniera discreta e rassicurante lo ha sempre accompagnato con l’amorevolezza che le era propria. Raccontandosi nel periodo dell’infanzia, si ricorda come di un bambino irruente e incline alla solitudine e, quella che per i suoi educatori scolastici veniva definita come una manifestazione di un ‘bambino difficile’ lui, in diverse occasioni, l’ha chiamata ‘ipersensibilità’.
Ha vissuto la sua adolescenza come tanti del suo tempo, con gli amori intensi che contraddistinguono il periodo, con l’impegno politico che veniva assunto come totalizzante alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, con le alterne questioni di fede, scosse dalle vicende di una Chiesa che si stava rinnovando in molte delle sue forme. Dopo la maturità, per una serie di circostanze, il viaggio insieme con tre suoi amici, lo conduce in Turchia dove ebbe il primo contatto in assoluto con l’oriente musulmano. Da lì, attraversando la Siria, il passo è breve per giungere fino Gerusalemme, pensarono. Ma non vi arrivarono a motivo di un fermo da parte degli israeliani che li bloccarono al fiume Giordano, in Giordania.
Alla fine del 1974, si rivolge a padre Giuseppe della Compagnia di Gesù (gesuiti), cappellano dell’Università, determinato com’era e convinto da alcuni episodi particolarmente importanti di quel periodo, a diventare gesuita. Dopo il servizio militare e prima di entrare in noviziato, decise di andare finalmente a Gerusalemme per visitare diversi luoghi della Terra Santa. Meditò profondamente il senso dell’incarnazione di Gesù in un popolo, quello ebraico, coltivando l’idea che anche la Chiesa ‘doveva potersi incarnare radicalmente in tutti i popoli’.
Nel 1975 inizia il suo cammino di noviziato e, durante il primo dei due anni, matura cinque punti che diventeranno come dei cardini del suo percorso di religioso:
1. Continuare con gioia il percorso intrapreso nella Compagnia di Gesù;
2. Mantenere intatta la disponibilità ad andare ovunque nel mondo con coraggio e fede (la parola ‘Islam’ gli apparve chiara).
3. Andare verso i poveri, i diseredati ed anche gli ‘assetati di Dio’.
4. Superare il desiderio di successo, di realizzare cose grandi e importanti, a vantaggio della capacità di imparare sempre più ad essere ‘un piccolo servitore, un umile operaio al lavoro nella vigna del padrone’.
5. Partecipare alla croce del Signore.
Durante il prosieguo del secondo anno, progressivamente elaborò il desiderio di Islam e che ciò poteva realizzarsi, passando attraverso l’ebraismo e attraverso la comprensione della profondità dell’inculturazione del Verbo nell’ebraicità. Quel desiderio, divenne il sogno di far coesistere le tre religioni monoteistiche in se stesso.
La Compagnia di Gesù nella sua storia è sempre stata posizionata negli avamposti della Chiesa. Ha sentito e sente l’impegno per essa tanto che il suo fondatore, Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, ha definito delle ‘regole’ circa il ‘sentire cum ecclesia’[2] come un modo per essere più intimamente legata ad essa. San Francesco Saverio, Matteo Ricci, le Riduzioni del Paraguay, sono solo alcune delle persone e delle situazioni in cui i gesuiti, in virtù della propria spiritualità e della loro missione, hanno offerto il proprio carattere missionario in nuovi territori culturali e spirituali. All’interno della Chiesa continuavano e continuano a crescere le interpellanze di un dialogo con le altre espressioni delle fedi cristiane e con le altre religioni. I gesuiti stessi hanno contribuito e contribuiscono con diversi autorevoli pensatori e teologi in questa direzione, alla ricerca di nuove vie di dialogo e di possibili incontri.
Il percorso di Paolo nei gesuiti viene accolto e sostenuto Attraverso un Assistente del Padre Pedro Arrupe[3]. Così Paolo, dopo aver approfondito la sua conoscenza del francese facendo il cameriere a Parigi, fu inviato in Libano per imparare l’arabo. Di lì fuggi nel 1978, costretto dagli eventi, mentre imperversava la guerra e visse questo come una cocente sconfitta personale. Tuttavia, studiò filosofia, arabo a cultura islamica a Napoli e ottenne una borsa di studio dal Ministero della Cultura israeliano che gli permetteva di andare a Gerusalemme per imparare l’ebraico. Al termine di questi studi promise di offrire ‘tutta la sua vita per portare la pace tra i figli di Abramo’. Successivamente, fu inviato a Damasco dove, mentre si preparava al sacerdozio, scelse di appoggiarsi a una Chiesa cattolica d’Oriente scegliendo il rito siriaco che, a suo avviso, gli sembrava più vicino al ‘respiro’ della preghiera musulmana.
Dal 1982, la storia di padre Paolo s’intreccia con quella di Mar Musa ed egli stesso così racconta:
“Durante l’estate del 1982, mentre ero in viaggio nel Vicino Oriente, scoprii una vecchia guida della Siria pubblicata nel 1938. Sfogliandola, trovai un paragrafo che descriveva un monastero cristiano, abbandonato da due secoli in mezzo al deserto. Il luogo si chiamava Deir Mar Musa el- Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino[4]). Per portarci i viaggiatori, la guida proponeva di noleggiare un mulo a Nebek, la città più vicina, e di percorrere una pista attraverso il deserto. Il tragitto durava tre ore. L’idea mi piacque infinitamente”[5].
Trovò un luogo abbandonato, distrutto… ma anche pieno di ‘presenze’, di personaggi affrescati e di essi, o di ciò di essi rimaneva, che gli chiedevano che cosa ci facesse lì. Era notte, era solo e, prima di tornare a Roma, cercava domande e risposte nel deserto e nel silenzio.
Da allora, la sua vita di prete e di sacerdote della Compagnia di Gesù, ha conosciuto momenti belli e momenti difficili. Menzioniamo tra i tanti, il ‘terzo anno di probazione’[6] nelle Filippine, dove ebbe contatto, tra l’altro, con una porzione di mondo medio-orientale non arabo. Di ritorno da quell’esperienza, si fermò in India dove risuonò in lui lo spirito del Mahatma Gandhi che rifiutava qualsiasi spartizione dell’ex colonia inglese per motivi religiosi: molti hanno definito il padre dell’India come una sorta di avanguardia spirituale non solo per quel territorio, ma per tutta l’umanità.
Per padre Paolo, in tante circostanze, si sono aperti conflitti interiori che lo hanno squarciato da dentro, tra l’obbedienza ai suoi superiori e quella alla sua coscienza. In diversi momenti critici ha tenuto fede a se stesso e alle proprie intuizioni. Come quando di ritorno dalle Filippine e dall’India, contrariamente a quanto indicato dai suoi superiori, dopo 10 anni di cura verso Mar Musa, decise di stabilirsi definitivamente lì. I conflitti, padre Paolo li viveva anche in alcune relazioni del posto che poco gradivano quanto stava avvenendo in quel monastero che sembrava definitivamente morto nel deserto e che invece tornava in vita proprio grazie alla sua caparbietà. Così, anche al di fuori del suo travaglio interiore e in mezzo alle accese dispute che venivano sollevate dall’opera che si andava compiendo, il monastero di Mar Musa ha innescato un percorso possibile che altri, con lui e dopo di lui, non hanno esitato ad intraprendere.
[1]I tratti di questo breve profilo sono ricavati da G. DE MONTJOU, Mar Musa, Un monastero, un uomo, un deserto, Paoline, Milano, 2010.
[2] Cf Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 352-370.
[3] In quel periodo Preposito Generale dell’Ordine dei gesuiti.
[4] Di lui si narra che fosse stato un principe, figlio di un re di Etiopia e che rinunciò al suo regno per vivere da eremita. Dopo essere divenuto monaco scelse come dimora una delle grotte che circondano il monastero.
[5] P. Dall’Oglio, L’uomo del dialogo, a colloquio con Guyonne de Montjou, Paoline, Milano, 2014, 21.
[6] Per i gesuiti è l’anno che completa la lunga formazione attraverso un nuovo studio dei testi che riguardano l’Ordine, la spiritualità con un nuovo mese ignaziano insieme ad una esperienza apostolica pastorale.
DIALOGO TRA BUDDHISMO E CRISTIANESIMO: Gesù un risvegliato? Lettura critica di alcune pagine del libro di Paul Knitter, “Senza Buddha non potrei essere cristiano” (terza ed ultima parte).
3. Partiamo da ciò che abbiamo in comune
Secondo Paul Knitter, una cosa che buddismo e cristianesimo hanno in comune è sicuramente la ‘pratica’. La pratica potrebbe essere considerata come quelle azioni che preservano e nutrono la vita spirituale. Una sorta di allenamento del muscolo spirituale che bisogna esercitare e che, quindi, la pratica mantiene in movimento. Il nostro autore definisce altresì la pratica
“in ciò che si fa per garantirsi che il cuore della propria religione sia anche il proprio cuore, per assicurarsi di essere collegati a quanto ha dato e dà impulso a quella tradizione”[1].
Nelle pagine che seguono, Knitter dettaglia alcuni contenuti e modalità della pratica cristiana, la preghiera, evidenziandone alcuni aspetti problematici e, soprattutto, il dualismo, la relazione con un ‘Dio esterno’[2]. Nello scorrere delle pagine viene quasi suggerito come una sorta di poca chiarezza che si frappone in questa relazione e che ha necessità anche di riti e liturgie particolari e, a volte, di una lunghezza sconcertante, senza capire se ciò che si compie si svolge per se stessi, per gli altri o per l’Altro. Appare quasi chiaro che se si vuole che abbia un valore per se stessi, sia necessario un linguaggio interiore determinato per mettersi in dialogo con Dio. Alcune preghiere sembrano più un monologo e lasciano poco spazio all’ascolto. Di più sarebbe da dire, che molto poco posso pronunciare della divinità anche in virtù di quello che conosco davvero.
Davanti al Mistero, forse, è più opportuno il silenzio.
“Se il Divino è davvero un Mistero che sovrasta ogni umana comprensione, ogni idea o parola umana, allora qualsiasi pratica spirituale deve far spazio, tantissimo spazio!, alla pratica del silenzio”[3].
Forse è la contemplazione il luogo, la tecnica, il modo possibile per i cristiani di fare silenzio? La contemplazione si presta a vari modelli che a volte sfociano in versanti diversi come quello di meditazioni più o meno guidate. Comunque, rimane sempre viva la difficoltà di concedersi la possibilità di pensare, sentire e vivere non un Dio esterno a sé, ma uno presente in sé.
“Nella mia lunga esperienza della tradizione cristiana ho trovato che siamo molto ben forniti di ispirazione, ma molto meno di tecnica; ben equipaggiati di ideali e contenuti, ma poco di metodo”[4].
Bisogna pertanto trovare un metodo che consenta di portare a metodo tutti quei contenuti di cui siamo portatori. È certo che nell’ottuplice sentiero possiamo ricavare alcune informazioni per una buona pratica:
- Impegnati, sforzati
- Ad essere presente a quanto avviene dentro e fuori di te
- Concentrati nel lasciar accedere quel che deve accadere.[5]
Un impegno specifico è alla base di questo metodo. Se non vi è sforzo, non vi è risultato e, questo sforzo deve essere innanzitutto rivolto verso se stessi, al proprio corpo, alle emozioni ed ai pensieri. Per poi andare oltre se stessi e la concezione che abbiamo di noi stessi.
“La presenza mentale ci impedisce di essere dirottati dalle nostre emozioni o opinioni”[6].
Avviarsi alla presenza ci porta a comprendere davvero quello che accade ‘dentro’, nel profondo. Si arriva ad un silenzio ‘vuoto’ di ogni suono che può portare a esperienze mistiche unitive, come in diverse esperienze di mistici cristiani.
“Il silenzio mette in grado il mio essere, che è un <<essere in Cristo>>, di esprimersi, di farsi avvertire”[7].
In questo silenzio trovano una loro collocazione certa l’espressione di San Paolo quando descrive che è Cristo che vive in lui e non è più lui che vive. Le Parole non sono più pensate, ma esse pensano me[8]. Se confidiamo, accadrà e sarà espressa la nostra fede.
Il silenzio dunque accomuna Buddhismo e Cristianesimo. Un silenzio che non è un niente, ma un ‘Tutto’ nel quale cercare di esserci in presenza. Un silenzio cui troppo spesso non siamo abituati che interroga soprattutto i cristiani perché possano riprendere ciò che sin dall’origine e con la tradizione, è stato riservato loro.
[1] 173.
[2] Cfr., 179.
[3] 180.
[4] 185.
[5] Cfr., 188.
[6] 202.
[7] 206.
[8] Cfr., 207.
DIALOGO TRA BUDDHISMO E CRISTIANESIMO: Gesù un risvegliato? Lettura critica di alcune pagine del libro di Paul Knitter, “Senza Buddha non potrei essere cristiano” (seconda parte).
2. Cosa può ‘offrire’ il buddhismo al cristianesimo.
Un Gesù che rivela e si rivela è troppo poco conosciuto nella nostra esperienza di fede ma in particolar modo nel vangelo di Giovanni, viene ritratto spesso proprio come colui che indica la via rendendola nota. Possiamo correttamente dire che la formulazione dell’esperienza di Gesù come ‘riparatore’ è spesso prevalsa nei secoli a scapito di una formula che fin dai primi secoli dell’era cristiana invece risultava come colui che ‘si era fatto come noi per farci come Lui’.
Gesù per i cristiani è un uomo speciale e rimarrà tale non in quanto migliore o peggiore di altri ‘risvegliati’. Egli rimane speciale perché, quando incontrato intimamente tanto da coinvolgere la vita del cristiano per affetto e per ragione in maniera intensa, rende la vita migliore di prima. Si può parlare così di un rapporto assoluto ma si può dire poi, forse anche e proprio per questo, che chi ha incontrato Cristo per davvero, lo vede come la Via che è aperta ad altre vie[1]. Questo è un grande dono che il Buddhismo può fare al cristianesimo.
Non molto lontano dalle pagine prese in esame, possiamo leggere tra le righe dell’esperienza di un buddhismo che qualcosa ha ‘preso’ dal cristianesimo e che ci rimanda. Anche se non maggioritario, all’interno del mondo buddhista appare sempre più rilevante l’apertura ed il servizio alle persone più povere, in difficoltà. Offrire risposte in termini non soltanto economici e/o sul piano esistenziale, fornisce delle sollecitazioni importanti anche per i cristiani. La predilezione di Gesù per i poveri è nota
“il cristianesimo è una religione che ricorda ai propri seguaci e a tutte le altre religioni che conoscere Dio significa preoccuparsi per le vittime del nostro mondo e anche il modo in cui siamo chiamati a riconciliare vittime e carnefici”[2].
Nella direzione di un cristianesimo che di faccia portatore di carità, di pace, di riconciliazione, abbiamo esperienze interne che oggi potremmo definire come degli ‘strappi’ e che invece necessitano di maggiore continuità. Il mondo dei cristiani, a volte, si è fatto portavoce dei propri valori caratterizzanti, in altre circostanze si è ritratto. In diverse regioni geografiche e sociali, il buddhismo si è fatto paladino di un’attenzione ai poveri che possiamo ritenere utile come segnale, come una campanella per le nostre tradizioni. In tal senso queste, sono troppo spesso oscurate da poco sapienti e molto opportune dinamiche di apparentamento con poteri, interessi e ragioni sopra le righe. Non dimentichiamo nemmeno i secoli di storia che pesano nella parte di maggiore conservazione delle chiese cristiane che sempre più allontanano la stragrande maggioranza dei fedeli, lasciando a pochi la rappresentanza di una fede di uomini che credono nell’Uomo di Nazareth che portava il lieto annuncio ai poveri, guariva gli ammalati e annunciava la libertà ai prigionieri.
In questo senso, sul piano politico e sociale, il buddismo può richiamare diverse delle origini cristiane e permetteranno ai cristiani stessi di farsi riconoscere non per un presunto essere migliori ma, per esempio, a partire dalla loro capacità di essere pronti nella carità[3].
(segue)
[1] Cfr., 163.
[2] 167.
[3]Cfr., 168.
DIALOGO TRA BUDDHISMO E CRISTIANESIMO: Gesù un risvegliato? Lettura critica di alcune pagine del libro di Paul Knitter, “Senza Buddha non potrei essere cristiano” (prima parte).
Gesù era un ‘risvegliato’?[1]
Nel nostro ambito di lavoro conviene dapprima esprimere cosa vogliamo intendere con il termine ‘risvegliato’. Ci poniamo evidentemente in un ambito spirituale e, pertanto, parliamo dello spirito addormentato che si ri-sveglia. Normalmente, il suddetto termine in assoluto, quello con l’articolo determinativo “il”, viene assegnato a Siddharta Gautama, il Buddha.
Può essere frutto di un percorso istantaneo o lungo e, di fatto, è il raggiungimento di uno stato di ‘veglia’ e difficile da comprendere quanto possa dipendere e in che percentuale da colui che ‘apre gli occhi’ o da chi e/o che cosa gli fa aprire gli occhi. Può seguire anche una domanda coerente: a che cosa si ‘aprono’ i più ampi sensi umani? Possiamo rimanere nella metafora dicendo che ci sia apre ad un giorno Altro, quello che prima non c’era e che diviene sensibile, a chi può goderlo.
L’autore del testo in esame, attraverso alcune suggestioni, ci introduce alla possibilità teorica, come oggetto di indagine da approfondire, che anche Gesù di Nazareth possa essere stato un ‘risvegliato’. Egli assume l’ipotesi che l’espressione “Figlio di Dio” attribuita alla figura di Gesù, possa essere trattata come analoga senza che l’esperienza vissuta dal Buddha e dal Nazareno possa essere definita e pensata come identica. Knitter suggerisce la figliolanza divina non come qualcosa che ‘atterra’ nella persona di Gesù, ma come un divenire. Egli, negli anni della crescita e della formazione, si “risveglia”, prende coscienza della sua essenza, allo stesso modo di come il Gautama si risvegliò[2]. I Vangeli canonici non ci narrano nulla del periodo che ha preparato la vita pubblica di Gesù. Cosa sia accaduto durante il tempo della sua ‘formazione’, tranne per l’episodio narrato da Luca al Tempio all’età di 12 anni, non ci è dato saperlo se non per ipotesi e supposizioni. In realtà, ciò che abbiamo abbastanza chiaro è quanto avvenuto dopo e di come Egli fosse ‘evoluto’, cresciuto davvero in ‘grazia e sapienza’ e di come tutti i Vangeli canonici riportano numerosi episodi che cristallizzano il percorso personale di Gesù. Quello che non era altro che il figlio del falegname, ora compiva prodigi, ripieno di Spirito Santo, tanto da potersi definire un’unica cosa col Padre[3].
Quanti lo hanno conosciuto
“Avevano davanti un essere umano così ricolmo e così in consonanza con quanto chiamavano lo Spirito di Dio che si resero conto che conoscere lui era conoscere Dio. (…) [Eppure] Egli rimane uno di noi, per quanto sia arrivato di gran lunga prima di noi”[4].
La figura di quest’uomo così messa, rappresenta il pieno sviluppo del potenziale umano che è quanto, più o meno consapevolmente ciascuno di noi, cercatore della vita, cerca di fare. Questo modo di essere pienamente divino è per noi, comprensibilmente e decisamente, pienamente umano[5].
Knitter prosegue dicendo che
“Concepire la salvezza come il Risveglio e il Salvatore come il Rivelatore significa, ancora una volta, riscoprire e approfondire la nostra tradizione cristiana”[6].
È indubbio quanto questa espressione dica sulla possibilità arricchire il nostro cristianesimo ed il nostro essere cristiani e di quanto questo possa metterci in una condizione diversa nel vivere la nostra fede in maniera rinnovata e, potremmo dire anche, risvegliata.
In sì fatta direzione possiamo prepararci ad essere per il “di più” e pronti per la grazia[7] e volgere lo sguardo al Salvatore più come un ‘Rivelatore’ che non a un ‘riparatore’: questo è certamente uno dei contributi che il Buddismo può offrire al cristianesimo[8].
(segue)
[1]Le pagine che seguono, prendono atto dalla lettura di alcune pagine del libro di Paul KNITTER, “Senza Buddha non potrei essere cristiano”, Fazi Editore, Roma 2011. Dove non indicato diversamente, le note fanno riferimento a questo testo.
[2]Cfr., 151.
[3] Cfr., 152.
[4] 153.
[5] Cfr., 153.
[6] 154.
[7] Cfr., 157.
[8] Cfr., 161.
ANCORA IL CONCILIO VATICANO II? Novità di ricerca, incontro, comunità.
In classe, alcuni ragazzi mi chiedono se ha ancora senso parlare di ‘novità’ del Concilio Vaticano II (CVII) a 55 anni dalla sua chiusura. Quello che è stato, è stato; quello che doveva dire ha detto, ora guardiamo il presente, quello che ci riguarda, parliamo dell’oggi e valutiamo se ha senso questo cristianesimo, di quello che vediamo nelle chiese che sono sempre più vuote, così come sembra anche svuotarsi un po’ il messaggio evangelico: è per certi versi il senso di quello che ascolto dai miei alunni più grandi. Il CVII sembra ormai lontano da loro. Io mi sento interpellato seriamente poiché anch’io sento la necessità, con loro, di farmi qualche domanda su ‘questo cristianesimo’. Una domanda così viva richiede una risposta e, la risposta, non deve essere solo un libro o più libri e, allora, per punti, dico loro alcune cose, pur sapendo che come per ogni risposta sulla fede, vale sempre più una testimonianza sincera.
Dapprima parlo di un Concilio che viene indetto dopo circa 400 anni dall’ultimo[1], il Concilio di Trento (1545-1563). Questo fatto squisitamente cronologico lo rende già una novità. Un papa anziano (Angelo Roncalli) lo indice nel 1959 e immediatamente diviene un evento, molto più che un semplice episodio. Giovanni XXIII ha esperienze diplomatiche internazionali, con una visione di relazioni onnicomprensive ed è stato Patriarca di Venezia, potremmo dire che è stato Vescovo come ‘un pastore che odora di pecore’. E, infatti, non ha voluto un Concilio come gli altri di dogmi e regole, o contro qualcuno o qualcosa, lo ha voluto ‘Pastorale’. La Chiesa, dice Angelo Roncalli, deve aggiornarsi, deve aprirsi, deve riscoprire il messaggio evangelico, deve trovare un linguaggio nuovo per dirselo e narrarlo al mondo. Giovanni XXIII è la scintilla necessaria di un fuoco che è ormai acceso e che rimane tale anche dopo la sua morte nel 1963.
Gli succede Paolo VI (Giovanni Battista Montini) che porta avanti quanto ben avviato dal suo predecessore. L’avanzamento dei lavori con una presenza media di circa 2000 vescovi, oltre anche alcuni rappresentanti di chiese cristiane e non e, verso la fine, anche di alcuni laici, procede più o meno facilmente. Gli argomenti sono delicati e diversi, le discussioni prendono piede: sessioni, commissioni, congregazioni generali, oltre diversi documenti: Costituzioni, Dichiarazioni, Decreti, messaggi vari a diverse categorie di persone… Un ingranaggio coinvolgente, una macchina complessa con opinioni varie e pareri molteplici. Paolo VI detta le regole, cerca di tenere insieme, sviluppa mediazioni, porta a termine quei lavori che sembravano arenarsi in qualche parte di questo grande processo. Avoca a sé alcune decisioni anche posponendole alla fine del Concilio. Montini è uomo di mediazione ed è fulcro di equilibri continui. Si rappresentano così molto spesso, fino alla fine e anche dopo la chiusura dei lavori, una minoranza che vuole conservare quanto più possibile lo status quo, ed una maggioranza molte volte divisa in sé che, nel tentativo di rimanere sulla via del rinnovamento, pare sgretolarsi, perdere pezzi.
Questi equilibri dubbi, tengono e non tengono, si oppongono chiaramente alla lucidità osservata in Roncalli. Lasciare in vecchio, affacciarsi al nuovo attraversa mille peripezie. Alcuni tengono, altri vanno via. Alcuni rimangono volutamente indietro, altri sono più lenti; altri corrono avanti decisi e non aspettano, magari sono capaci di mostrare un orizzonte più ampio, una via sconosciuta. In tutti questi movimenti si creano spazi incerti, indefiniti; chi lascia una convinzione che era quello attorno al quale gravitava tutto, si sente smarrito; chi aveva compiuto azioni appena sbocciate nel proprio mondo emotivo che lo avevano esaltato, vive modi di prassi abitudinarie e si disorienta. Tra un tanto e un poco c’è un così e così; tra un ‘sì’ e un ‘no’ chiari, appare un nì. Si è creata così un’area che potremmo definire limbica, uno spazio contenitore che si è posto al centro tra visionari e recriminanti… Quasi un popolo di donne e uomini ‘accesi’ che man mano sembrano assopirsi sul comodo cuscino delle abitudini, anche quelle nuove, post-conciliari, e sembrano perdere l’energia che apparivano produrre. Quella zona con tante gradazioni dove si affacciano disimpegno e impegno e che, alla fine, diventa il posto dove ciascuno si rincuora autonomamente raccontandosi che tanto, alla fine, tutto rimane come prima, che sono sempre gli stessi, e così via…
“Va beh prof, le solite cose, niente di nuovo sotto il sole… Queste cose le conosciamo già; è così per tanti: si entra rivoluzionari e si esce burocrati”.
“Sì, è vero in parte”, dico loro. Il cambiamento ha sempre questi risvolti di conflitto, di confusione, di arretramento oppure avanzamento lento o spedito che sia… guidare il cambiamento è una sfida continua. Avviene e ne comprendiamo la portata quasi all’improvviso, oppure lasciamo che ci scivoli addosso; altre volte, per comodità o paura, facciamo finta di niente. Ma se non vogliamo rimanere in quella zona limbica anche noi, se almeno vogliamo provare a dare ragione a quelli che ci tentano per amore, per coerenza verso se stessi, il proprio credo e i propri ideali, proviamo a osservare almeno tre cose che, secondo me, continuano ad essere nuove.
- Lo stile della RICERCA. Prima ancora che nascesse l’idea del Concilio, essa è stata cercata, voluta. Dai diari di Giovanni XXIII ci appare chiara questa tensione verso, che si definisce nel tempo. La ricerca è capace di recuperare dal passato gli stimoli per esplorare spazi nuovi. Così vale per la fede: cosa permette e come la vita cristiana si incultura nel tempo e nello spazio? Una verità, se è tale, non è mai posseduta per intero, è nel ‘già e non ancora’, è da cercare sempre e in maniera dialogica. La ricerca, in generale, è dell’umile dal cuore onesto, del curioso che si vuole mettere in gioco, è del bambino che desidera diventare grande. La ricerca è per tutti e non ci sono favoriti e non si può dire che qualcuno possa essere privilegiato per una qualche condizione.
- Allora la ricerca è lo strumento per stabilire come posso rivisitare costantemente me stesso e me stesso in relazione alla sequela di Cristo come un’esperienza mistica a più livelli. Non ci può essere fede cristiana senza incontro del Risorto (cfr 1Cor 15) che avviene come un incontro personale. Ma questa presenza non è solo personale, è sacramentale, ecclesiale, umana (“ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi fratelli più piccoli…” Mt 25,40). È lì, in te, è lì, lì, lì, … è onnipresente ed è necessario avere occhi nuovi e un cuore nuovo che si aprono, come è successo per Maria Maddalena e i discepoli di Emmaus, per esempio. Se occhi e cuore a volte (o troppo spesso si offuscano), almeno posso lasciarmi raggiungere per far diventare quella ricerca un lasciarmi trovare nell’oggi: un sepolcro vuoto, per strada, in riva lago, nel Silenzio…
- La ricerca di questa esperienza nasce da una comunità e riporta ad essa. Una comunità, sia essa familiare o pastorale è maestra e conserva i principi della trasmissione della fede. Questa esperienza ti fa ritrovare in una chiesa, in una comunità dinamica, che ricercando incontri veri sarà meno rigida, aperta al discernimento e alla sinodalità. Una comunità così fatta non ha un portfolio per sempre: è in cammino presentandosi come immagine e testimonianza dell’Incontro e di tutti gli incontri. Non si chiude e anzi, è propriamente identitario di questo tipo di comunità di fede, essere aperta. E’ il luogo dove sentirsi chiamati per nome senza essere nella massa ed essere valorizzati per i propri carismi e la propria mission.
Che ne dite ragazzi?
Queste sono alcune delle novità del CVII che ci vengono offerte: tante persone sono state coinvolte per cercare, in alcuni anni, un linguaggio nuovo per parlare del messaggio di Gesù. Hanno individuato qualcosa, ma non ancora tutto e allora ci dicono, dopo 55 anni, cerca anche tu.
I Padri conciliari ci hanno dato strumenti che loro non avevano e, per fare esperienza mistica, come per esempio una Scrittura comprensibile con testi in lingua e studio storico-critico di tanti bravi ‘cercatori’, hanno dovuto faticare di più; pensiamo anche ad alle liturgie più partecipe, vive, alla possibilità di avvicinarci di più e personalmente alla figura e all’incontro personale di questo Maestro straordinario.
E che dire poi di quei tanti che oramai non sono più casta e che svolgono il proprio servizio all’interno della grance comunità cristiana per leggere con te i “segni” di ciò che accade, che ti accade e che accade nel mondo. Una comunità non omogenea che ti offre preghiera e sacramenti, ma che è segno evidente si servizio ai poveri e a quanti sono in difficoltà, con tante persone (che sono sempre troppo poche) che industriano per trovare sempre soluzioni per portare per mano chi rallenta nella vita.
Un Concilio così deve ancora terminare ed ha bisogno ancora di tanti, di me e di te, perché oggi come allora, possiamo accogliere l’azione viva e vivificante dello Spirito di Dio.
[1] Metto volutamente da parte il Concilio Vaticano I (1869-1870) anche perché mai chiuso e per osservare con più immediatezza alcuni passaggi.
SUL CORANO, elementi di base per la curiosità del principiante
Il Corano è la scrittura rivelata dell’Islam. Dio parla a Mohammed, l’ultimo dei profeti, attraverso l’arcangelo Gabriele.
“Secondo la tradizione islamica il Corano sarebbe «disceso» sul Profeta per intero nella cosiddetta «notte del destino», tra il 26 e il 27 del mese di ramadan del 610, ed è evidente che tale credenza risponde alla necessità di preservare la trascendenza della Parola divina, evitando di farla dipendere troppo strettamente da fatti e situazioni contingenti a cui essa è tuttavia comunque spesso e palesemente collegata”[1].
Il testo che abbiamo a disposizione lo dobbiamo ai seguaci del Profeta che hanno stilato il Codice anche rinarrando testi biblici, con generi letterari diversi come l’omiletico e l’epistolare, rivolti generalmente alla seconda persona plurale (Pagani, 2019).
Vi ritroviamo leggi e precetti relativi al culto, alla vita familiare, sociale, con delle raccomandazioni anche molto vicine al galateo. Le parti narrative riguardano storie di profeti antichi e non, che vengono proposti come esempio di virtù e di ‘sottomissione’ a Dio e che come credenti hanno segnato una strada. C’è uno stile che potremmo definire ritmico che il Corano propone non solo nelle sezioni più antiche ma anche in quelle più recenti. Questo stile si sposa bene con la pratica della ripetizione dei versi a memoria e, complementarmente, con quella dimensione dell’ascolto del testo che in virtù anche di questo speciale ‘ritmo’, mantiene sempre una certa musicalità espressiva[2].
In generale, secondo Abû Bakr al-Bāqillānȋ, il Corano per struttura letteraria e contenuti è, comunque, inimitabile e ciò può essere giustificato almeno attraverso tre elementi:
- Contiene informazioni sull’invisibile che l’essere umano non ha in sé;
- Nonostante il Profeta fosse illetterato ha fatto menzione di fatti che non poteva conoscere se non per rivelazione;
- L’eleganza letteraria è tale e sublime che non può che essere di provenienza divina.
Ovviamente i molti seguaci hanno poi aggiunto altre motivazioni e questo certamente anche per giustificare il Corano come un libro generatore e portatore di conoscenze fondamentali per l’essere umano[3].
Questa inimitabilità rimarca come il Corano sia per i credenti musulmani Parola di Dio senza alcuna mediazione umana, come invece, per esempio, avviene per gli scritti biblici. Anzi, per avere una maggiore facilità di comprensione nel nostro ambito culturale a partire dalla fede cristiana, è più facile ardire un parallelo del Corano con ciò che è il Logos-Cristo. In questa prospettiva, dunque, i Vangeli possono più facilmente essere accostati agli hadīt, fatti e detti del Profeta, che non al libro del Corano[4].
Il libro è ordinato in 114 sure (che noi potremmo denominare capitoli), suddivisi in versetti. L’ordine è puramente estetico (tranne che per la prima sura) poiché sono editate progressivamente dalla più lunga alla più corta, senza raggruppare per temi omogenei i contenuti e senza tener conto del periodo in cui sono state scritte. È particolare anche l’incipit di tutte le sure (tranne la IX che in origine faceva un tutt’uno con la VIII), ove viene riportata sempre la formula rituale “Nel nome di Dio, clemente misericordioso”[5].
La ripetizione di questa espressione ad ogni sura, per molti commentatori occidentali, è occasione per considerare diversamente la visione di Dio nel mondo islamico. Essa appare spesso, in un’ottica decisamente superficiale e sicuramente condizionata da alcune forme allarmistiche dei sistemi mediatici, quasi più solita coincidere con quella della divinità super egoica, punitiva ed esigente, dell’onnipotente giudice che sferza i suoi seguaci e che è evidentemente poco confacente a quel Dio invocato nel suo essere ‘clemente e misericordioso’. Ma questa è solo una delle ‘sorprese’, piccole e grandi, che un approccio più attento del Corano può riservare a chi si avvicina al testo con una maggiore neutralità portata, per esempio, anche da un metodo di lettura che contestualizza storicamente lo scritto, leggendolo con una diversa capacità critica profonda.
Che sia stato scritto direttamente da Dio, come viene attestato dai credenti più tradizionali, o da devoti ‘ulamā’ negli anni immediatamente successivi alla morte di Mohammed come ritengono alcuni orientalisti, è chiaro come sia importante il ruolo e la funzione essenziale che questo testo ha svolto nei secoli passati e svolge ancora in questo tempo attuale. Per la seconda religione al mondo, il Corano oltre a coinvolgere lo spirito, è stato ed è determinante per affetti e psiche, oltre che per alcuni ordini negli Stati cosiddetti islamici, che riguardano la legge e il modo di intendere la giustizia, l’organizzazione sociale e i diritti delle persone, …. Se si considera l’inizio della stesura del Corano come avvenuta nei primi decenni successivi alla morte del Profeta, è verosimile affermare che il testo così redatto conserva molte più chance di minori distorsioni e di gran lunga numericamente inferiori, rispetto ai diversi libri canonici della Bibbia[6].
I commentari coranici si raccolgono in milioni di pagine e secondo le due più ampie aree di commento metodologiche Tafsīr e at-Tawil. Il primo, è un commentario di tipo più tradizionale che si fonda su un certo numero di scienze coraniche. Tra queste, non è importante la scienza teologica: Dio è inconoscibile all’uomo nel suo essere ‘totalmente’ altro ed è inutile tentare studi su l’Egli. Di Dio è più importante conoscerne gli atti, l’uomo e il creato e le leggi relative, e non l’essere. Ed a questo assolve il Corano. Il secondo sistema metodologico dei commentari ha un taglio più ermeneutico. All’analisi del testo coranico, deve seguire la comprensione del dove rimanere ‘alla lettera’ più il dove si può o si deve ‘interpretare’. Bisogna cioè cercare il giusto equilibrio tra ciò che è ‘solido’ e ciò che è ‘allegorico/ambiguo’ (cf. Corano III,7). Le traduzioni in genere ci riservano sempre una forma di tradimento della lettera e, se appare chiaro che i testi andrebbero letti sempre nella loro lingua originaria per lasciare meno dubbi interpretativi, dall’altro è altrettanto chiaro come nella dimensione internazionale assunta dai fedeli islamici di cui solo un quinto oramai sono arabofoni, questo sia davvero molto complicato (Campanini, 2019).
Una lettura ermeneutica del testo coranico può forse tradire alcuni puristi ma, in realtà, oltre a rassicurarli per altri aspetti, tipo quello del riconoscimento storico e non solo per fede dei contenuti ivi racchiusi, consente il rafforzamento delle linee di contenuti profondi e condivisi lungo le frontiere aperte sul territorio del dialogo interreligioso e tra le religioni cosiddette del libro e rivelate.
Francesco Paolo Monaco
[1] Paolo BRANCA, Il Corano, Il Mulino, Bologna 20162, 53.
[2] Cf. in ib, 50-52.
[3] Cf. Massimo CAMPANINI, Il Corano e la sua interpretazione, Editori Laterza, Bari 20184, 34-37.
[4] Cf. Giorgio VERCELLIN, Istituzione del mondo musulmano, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 20022, 51.
[5] Cf. Alessandro BAUSANI (a cura di), Il Corano, BUR, Milano 20106, XXXII-XXXIII.
[6] Cf. Massimo CAMPANINI, ib., 94-97.