P. Paolo Dall’Oglio S.I., testimone del dialogo in Siria (terza parte).
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
La singolarità del monastero di Mar Musa Alhabashi, San Mosè l’abissino.
La vita monastica di questo luogo risale al VI secolo e sarebbe stata legata al rito siro-antiocheno. Dall’iscrizione sul muro si legge che la chiesa attuale del monastero è del 450 dell’Egira (1058 d.C.).
Caratteristica dell’iscrizione sono le parole tipicamente coraniche <<In nome di Dio il Misericordioso, il Compassionevole>>. Nel XVI secolo il monastero fu in parte ricostruito e ampliato anche se poi fu abbandonato dai monaci che vi si riunivano la domenica mattina e che forse trovavano una qualche difficoltà a farlo in quelle condizioni. Verso il 1850 la proprietà passò all’Eparchia siriaca-cattolica di Homs, Hama e Nebek e la parrocchia locale cercò di conservarla al meglio poiché cristiani e musulmani spesso vi si recavano per visite devozionali. Particolare rilievo assumono gli affreschi e, nel terzo strato, dopo gli ultimi restauri, si legge:
“Terminato nell’anno seicentoquattro [dell’Egira, 1208 d.C.] per mano del decoratore Sergio figlio del prete Ali, figlio di Barran. Dio abbia pietà di lui e di tutti coloro che vengono in questo oratorio benedetto e fa’ che siano guariti. Amen”[1].
Come dicevamo, da diversi lustri padre Paolo Dall’Oglio si impegna per ottenere fondi al fine di recuperare pienamente la struttura, far giungere l’acqua, l’elettricità, rianimare l’intera vallata. In vario modo ha cercato di coinvolgere il governo siriano e anche quello italiano, recuperando una parte dei fondi necessari che pure arrivano da diversi benefattori del territorio e anche dall’Europa. Si è mosso anche nella direzione del riconoscimento formale di questa esperienza, non sempre facile ma che, comunque, inizia a ricevere i primi riscontri[2].
La comunità è composta[3] da una decina di persone di diverse nazionalità di cui due presbiteri e due donne. È quindi mista, interreligiosa, consacrata al dialogo islamico-cristiano.
La vita comunitaria inizia alle ore 7 del mattino per bere il matè[4]; dalle ore 7:30 alle ore 9:15, preghiera e catechesi in chiesa; alle 9:30 prima colazione con gli ospiti di un giorno, di una settimana, di un mese, di un anno… si prosegue con i lavori e le mansioni di ciascuno fino alle ore 14:30. Dopo il pranzo ognuno è libero anche se molti proseguono i lavori iniziati al mattino. Alle ore 19 il monastero si immerge nel silenzio più assoluto per l’ora di meditazione. Segue la messa in arabo. Dopo la cena sobria, le giornate si concludono con momenti di fraternità dove, pur provenendo da parti diverse, chi ci è stato dice che ci si capisce lo stesso.
Ciò che caratterizza la comunità monastica al-Khalil, può essere sintetizzata in tre priorità e un orizzonte[5]:
1. la vita contemplativa
2. l’impegno nel lavoro manuale
3. l’ospitalità abramitica.
La prima priorità, la vita contemplativa, trae ispirazione dalla tradizione siriaca e dal contesto vicino orientale e arabo islamico.
L’impegno nel lavoro manuale parte dall’esempio della famiglia di Nazareth, che unisce in sé l’esperienza ‘conclusa’ dove si unisce corpo e spirito, la materialità e l’orizzonte del Regno.
In ogni epoca i monaci hanno praticato l’ospitalità; “ospitalità fatta di servizio, misericordia e perdono, ospitalità di saggezza e direzione spirituale, ospitalità della mensa comune e del silenzio, ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel bisogno, il suo carisma particolare e la sua sete spirituale”; un’ospitalità abramitica.
L’orizzonte è quello di una speciale consacrazione all’amore di Gesù Redentore per i musulmani. In questa cornice, la comunità monastica si pone come ‘lievito evangelico nella comunità musulmana’ con uno spirito di ‘mutuo amore nella considerazione e nel rispetto reciproco’ tenendo con giusta attenzione questo lavoro di dialogo che consente anche agli stessi cristiani di avere un modo in più per restare in quel territorio.
Nella direzione di questa considerazione e nel rispetto reciproco, padre Paolo riconosce tre funzioni dell’islam[6].
La prima riguarda la produzione delle grandi Scritture. Attraverso il Corano è come se si fosse completata una tappa umana. Non che non vi siano nuovi testi sacri o gruppi religiosi, ma questi appaiono piuttosto come uno ‘sciame sismico’ che segue un grande terremoto. In questo senso Muhammad è l’ultimo dei profeti e “ciò non vuol dire che la dimensione profetica dell’umanità si è esaurita per sempre, al contrario. Deve essere riscoperta ed è una responsabilità condivisa da tutti”.
La seconda funzione vede la ‘fede come rivelazione naturale’. Riprendendo Louis Massignon in Les Trois prières d’Abraham, che dice: “Se Israele è radicato nella speranza, e la Cristianità votata alla carità, l’Islam è centrato sulla fede”, il musulmano vede Abramo come la persona a cui Dio affida una rivelazione. Abramo è l’amico di Dio ed è un modello di un’alleanza in cui la fiducia, diciamo reciproca, è di ogni giorno, di ogni momento. Ma è anche l’alleanza come obiettivo finale, escatologica e, quindi, di fede.
Vi è poi una terza funzione che è quella della sfida. L’islam da sempre per i cristiani è stato percepito come una sfida. Ma possiamo dire che la stessa cosa sia accaduta ed accada per il mondo dove vivono più numerosi i fedeli dell’Islam quando osserva il mondo occidentale (nel proprio immaginario ‘cristianizzato’), che si avventa nelle dinamiche della propria realtà araba ad esempio. Padre Paolo ci fa riflettere anche in una direzione diversa quando ci invita a leggere la storia del medio evo, per esempio. Come sarebbe andata a finire la storia, quale deriva avrebbe avuto la fede cristiana senza il ‘limitare’ del mondo dei seguaci di Mohammed? Parla di quel mondo cristiano, rappresentato in diversi tra affreschi e mosaici, di una forza imperiale e totalizzante impressionante, certa non di matrice strettamente evangelica.
Quel limite, per gli uni e per gli altri, rappresenta un’opportunità per ritrovarsi nella propria fede e nell’incontro con l’altro. La sfida iniziale non è dunque quella di convertire o l’uno o l’altro, ma è quella di convertirsi all’opera di Dio[7].
Le risposte non verranno da archeologia o storia, da dogmi o teologie, dalle sole istituzioni o dalle religioni; le risposte saranno date da incontri che faranno storie e teologie con uomini religiosi nelle istituzioni. Incontri che sono già iniziati a Mar Musa, come nel mondo, e che hanno bisogno di maggiore continuità, oltre che di essere rappresentati in modo più deciso.
Padre Paolo ha voluto coniare un termine che nella comunità di Mar Musa riecheggia costantemente: Islamofilia[8]. Al contrario di islamofobia, paura per l’islam (per tanti aspetti deriva fobica accecante), islamofilia completa in qualche modo il percorso iniziato con il proprio viaggio verso l’Islam; potrebbe diventare paradigma di un nuovo viaggio personale verso cui appuntare altrettanto nuove esperienze di dialogo.
Negli scritti e nelle interviste rilasciate da padre Dall’Oglio, egli ribadisce che Gesù non ha fondato immediatamente una religione. All’interno del mondo ebraico si è spinto oltre la legge reinterpretandola, dandole una funzione nuova che superasse il legalismo e il ritualismo fine a se stesso. Allo stesso modo la Chiesa, ha reinterpretato la vita stessa di Gesù spingendosi oltre quel mondo proprio grazie allo Spirito di Gesù, incarnandosi in culture diverse. Essere cristiani non significa inserirsi in un meccanismo di proibizioni e di sterili ritualità. Mediante la Chiesa il cristiano si avvia nel mondo non come straniero, ma come cittadino.
“Ma da dove vengono questa autorità di Gesù, questa libertà che lo conduce a reinterpretare la Legge e i profeti e a pretendere di dare loro compimento? Esse risiedono nella sua relazione col Padre nello Spirito. Per il discepolo di Gesù, si tratta di scendere al fondo di sé, fin dove si trova il carattere impresso nell’anima dal sacramento del battesimo. Là l’anima è stata unità alla consapevolezza di sé di Gesù di Nazareth. (…) Gesù è l’atto di Dio che va incontro all’uomo e mediante l’iniziazione cristiana, soprattutto mediante i sacramenti, il discepolo ha accesso dall’interno alla vita di Gesù”[9].
C’è un primo Incontro che rende possibile gli altri incontri. Questo Incontro richiama la prima priorità della comunità monastica di Mar Musa. È posto a principio e cardine dell’esperienza di padre Paolo. È il carattere, è il sigillo del cristiano che non può aver paura dell’incontro con chiunque altro, dopo essere stato ed essere con l’Altro. La cosa più entusiasmante è che è possibile vivere questo non in modo estemporaneo e saltuario, ma nella ferialità, nel quotidiano, con una possibilità infinita di ripetersi, di allontanamenti e di riavvicinamenti.
L’impegno del lavoro manuale offre una concretezza e, come dei monaci in città, è come se ogni giorno, in tutte le mansioni ordinarie, queste possibilità d’incontro, apparentemente così lontane nello spirito, fossero continuamente rese possibili per merito delle relazioni quotidiane. Più queste relazioni diventano incontri decisamente umani, più si diventa divini. Più si rinnova quest’esperienza, più si diventa rinnovati. L’altro, trova spazio nell’’ospitalità abramitica’ di un dialogo.
“Un dialogo di successo lascia un senso di comunione: ciò che sembrava contrapposto è ormai in armonia. Ciò che era diverso è diventato complementare. Ciò che faceva paura da quel momento in poi nutre la fiducia. Ciò che era da perdere, i pesi reciproci, è perso per davvero. Alla fine di un buon dialogo, ognuno copre il peccato dell’altro, perdona se stesso. Non siamo più estranei gli uni agli altri: formiamo un solo popolo.
Il mondo moderno è un’arena di sordi che parlano tra loro. Come in quei talk show in televisione dove il presentatore si diverte ad attivare la follia verbale degli interlocutori, le parole del mondo sgorgano ma nessuno le ascolta.
Se questi discorsi non ci interessano, se non ci attirano, è perché proviamo un senso di insofferenza, che proviene da una paura profonda, lontana: quella che Dio ci abbandoni, che non ci sia fedele. Ecco perché cerchiamo di fare meglio di lui, proteggiamo le nostre identità, i nostri particolarismi, ci attacchiamo a quello che sappiamo.
Ma Dio è fedele! Ogni disegno di vita ha una bellezza straordinaria”[10].
[1] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, Jaca Book, Milano, 2013, 2-3.
[2] Nel febbraio del 2006, il Vaticano ha approvato la Regola della comunità. A novembre la Fondazione euro-mediterranea ha consegnato il premio Anna Lindh per il dialogo fra le culture; nel 2009 padre Paolo riceve la laurea honoris causa dall’Università di Lovanio e di Leuwen per l’azione della comunità a favore del dialogo islamico-cristiano.
[3] Attualmente, oltre a Mar Musa, la comunità ha un monastero in prossimità della città Al-Qaryatayn in Siria (dove in questo periodo sono accolti molti rifugiati) e uno nel Kurdistan iracheno; da poco la comunità dei postulanti ‘San Salvatore’ di Cori (LT) in Italia è diventata anch’essa monastero.
[4] Si tratta di un infuso che si beve prevalentemente in America latina ed in Siria.
[5] Cf P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, op. cit., 185.
[6] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, 30-31
[7] Ib., 85
[8] Ib., 178.
[9] Ib., 25
[10] P. Dall’Oglio, L’uomo del dialogo, a colloquio con Guyonne de Montjou, 199.