L’Avvento è un tempo STRAordinario, nell’ordinarietà dei nostri giorni, in cui decidiamo di metterci in cammino verso il Natale.
Nelle letture di questa seconda domenica di Avvento, Isaia ci invita alla preparazione della strada per il ritorno verso Gerusalemme, dopo il periodo d’esilio in Babilonia.
Marco, all’inizio del suo vangelo (il più antico tra i quattro) riporta la predicazione di Giovanni il battista che gridava nel deserto: “preparate la via del Signore”. L’invito è quello di andare da Gerusalemme verso il Giordano, il luogo in cui immergersi nel battesimo con acqua, segno del futuro battesimo nello Spirito.
Nei due brani c’è l’idea di una strada da sistemare: essa ci potrà condurre verso un ‘nuovo vertice’ della vita, ovvero verso una vera e propria con-versione.
Colmare, ridurre, raddrizzare, sono alcune delle operazioni necessarie per lasciare le nostre ‘Babilonie’ e rigenerarsi nello Spirito. Ad esempio, potremmo utilizzare le numerose luci e lucine che troviamo per strada o quelle che utilizziamo per l’addobbo casalingo, come luci evocatrici di una pista di atterraggio o di un faro per orientarsi alla Luce.
Aprire spazi, creare luoghi perché il vero Natale trovi posto nelle nostre vite.
L’Avvento è per noi la strada spirituale verso un Natale diverso, come un grido nel deserto di una pandemia, di una distrazione di massa verso consumi più o meno sobri, di un deserto interiore magari con una via stanca piena di buche o di grandi sassi, una strada fatta di una fede convenzionale di abitudini e/o di sole regole senza un’anima.
In questo Avvento ecco per noi una strada nuova: colma, riduci, raddrizza le tue giornate, vivi il tuo ‘deserto’ come una risorsa per preparare un Natale nuovo. Rifare i nostri spazi con presepe ad albero e creare luoghi interiori come una culla, una mangiatoia, per accogliere vita nuova, come accade in ogni grembo materno che si espande e in alcune parti si ritrae, per far posto alla nuova vita che verrà.
Un invito per ciascuno di noi.
Puoi far coincidere la nascita di Gesù con le tua rinascita, con-vertendo il tuo battesimo sulla strada della riscoperta della sorgente di vita, bontà, verità e bellezza.
Il Signore viene e traccia la strada con i suoi profeti, ha segnato con i suoi testimoni il percorso da seguire e, noi, siamo invitati e inviati tra di essi perché il mondo possa intravedere la vera Luce che viene ogni giorno, tra le tante piccole stelle di Natale.
Il vangelo di questa prima domenica di avvento (Mc 13, 33-37) ci esorta a ‘vegliare’. Il verbo viene ripetuto in poche righe ben quattro volte. La sottolineatura è tale che ritroviamo il termine in apertura e chiusura.
Siate attenti, vigilate. Lo dico a tutti, vigilate. La cosa è proprio seria e Matteo ci avverte così del rischio di essere sonnecchiosi, se non completamente dormienti. Collocati nelle abitudini quotidiane, facciamo fatica a restare nelle domande più profonde. Può accadere anche nelle situazioni più straordinarie e, anziché sollecitarci per comprendere meglio chi siamo e dove vogliamo andare, ci ‘svegliamo’ solo un attimo come di soprassalto in un incubo, ritornando poi nella faccende ordinarie, come dei turisti nella vita. Può sembrare che la cosa ci spaventi, ma poi tutto può ritornare come prima e ricominciamo a sopravvivere mentre crediamo di vivere.
Siate attenti, vigilate.
Il vegliare è l’azione di colui che presta (maggiore) attenzione in un tempo particolare tipo la notte, in un momento di difficoltà o per la protezione di persone e luoghi… Il vegliare è un’attitudine da allenare per cercare di essere presenti dalla vita vera, mentre tutto scorre ‘normalmente’ e normalizzato da convinzioni e credenze. ‘Dormire’ all’essenza della vita, sopraffatti da bisogni effimeri, è il grosso rischio che possiamo correre anche nel vivere questo Natale come quello degli altri anni, nonostante tutto, senza la giusta vigilanza spirituale.
Il nostro compito, secondo l’indicazione di Gesù, è quello di non dormire: perché e come possiamo non addormentarci? L’immagine che ci può aiutare è quella del portiere e che ritroviamo nei versetti che stiamo commentando. La sua funzione è quella di custodire una porta, una soglia, un limite, una frontiera. Possiamo allora sentirci sempre lì, pronti ad arginare le diverse situazioni di comfort, come la fede relegata a certezze, dogmi e regole, oppure riscoprirla come una fonte inesauribile di relazioni sane e vere la cui sorgente sempre nuova è Cristo. E’ una soglia su cui stare, dove dobbiamo essere attenti, vigilare. Siamo sempre al confine tra il rimanere addormentati nelle cose del mondo o risvegliarci alla presenza di Dio.
Ma cosa dobbiamo custodire? Questo nostro portiere custodisce tutti i carismi in noi. Infatti, non manca nulla a chi incontra Cristo (cfr 1Cor 1, 6-7). E’ questa è la premura che dobbiamo avere: riconoscere costantemente l’essenza personale nobile e condividerla con ci chi sta accanto.
Spunti di riflessione per il prossimo periodo che ci prepara al Natale.
Nell’antichità, prima ancora che per il periodo di preparazione al Natale, l’essere in avvento si riferiva al tempo di attesa di un personaggio importante, della visita del Re o di un suo funzionario e, in talune culture, anche al tempo in cui ci sarebbe stata la manifestazione della divinità che, lasciava il luogo abituale del suo nascondimento agli occhi degli uomini. Era un po’ come una specie di ‘umanizzazione’ di Dio che è compreso, in qualche modo, in quello che contempliamo nel nostro mistero natalizio.
‘Avvento’ per i cristiani è attesa di questo evento del Dio che viene e si incarna nella storia. Attesa che, nel nostro caso, non ha niente a che fare con l’aspettativa: sappiamo che è venuto già e ci prepariamo oggi come ogni anno a farne memoria, a celebrare una festa. E’ fantastico come in questo tempo si conservino delle forme ancestrali legate al silenzio, al silenzio della natura, al silenzio del buio che nel suo solstizio inizia ad arrendersi alla luce. E’ un’attesa che non dubita, che è certa che, nel ciclo delle stagioni, l’inizio dell’inverno contiene in sé già i primordi della stagione successiva, la primavera, la nuova vita.
Ma ora si attende: ci si misura con questa ‘tensione-verso’, si at-tende. Siamo in attesa pieni di speranza, ma siamo contemporaneamente già certi che Egli è qui, perché altrimenti non avremmo necessità di farne memoria, di ri-cordarlo, di portarlo nuovamente al cuore. Dio c’è e si fa trovare sempre da chi lo cerca con cuore sincero (cfr Sal 144, 18).
Allora potremmo tradurre questo tempo come un tempo di allenamento per ri-conoscere, conoscere nuovamente, la presenza di Cristo nel mondo e non in un mondo generico, ma nel mio mondo. In questo nuovo conoscere c’è un principio certo e una domanda: Lui c’è già ed io dove sono? Se non mi colloco in maniera da poterlo incontrare sarà difficile fare Natale. Dovrò allora allenarmi ad essere presente a me stesso, prima ancora di cercare di essere presente al Dio che s’incarna nella storia della mia vita.
L’avvento liturgico è la mia preparazione speciale al quotidiano situarmi all’interno dell’eterno presente di Dio. Sono forse troppo spesso nel passato, guardo a quello che poteva essere e non è stato? Al torto subito o a quello dato? Non sono in Avvento. Oppure guardo al futuro? Voglio mantenere tutto sotto controllo e mi preoccupo con paura di quello che potrebbe accadere? Come sarà questo Natale col Covid? Mangeremo il panettone insieme con parenti e amici o sarò a tavola con i più intimi? Con questi ed altri pensieri simili, sembra difficile dire di essere nel presente eterno di Dio e così non mi preparo nemmeno all’Avvento.
Passato e futuro passano in secondo piano mentre si vive l’avvento, che potremmo definire dunque come una specie di costante attesa al presente.
Se attendiamo il Verbo, è il silenzio che deve contrassegnare questo tempo. A scanso di equivoci: non il mutismo, l’assenza di parole, ma un tacere psico-emotivo e fisico voluto, davanti al mistero della libertà amorevole di Dio di farsi presente all’umanità, a me.
Non siamo ancora in avvento o, forse, potremmo esserlo da tempo senza saperlo. Attendiamo che passi il Re e, ancora forse, potrebbe essere già passato e non ce ne siamo accorti. Fortunatamente lui c’è sempre, presenza eterna che comprende la storia e la speranza certa del futuro in lui. Facciamo spazio al silenzio vero creando le migliori condizioni, ora, e… prepariamoci all’Avvento.
Sì, perché un altro mondo è possibile e possiamo dirlo dopo questi ultimi tre passi che la comunità dell’evangelista Matteo ci ha fatto fare in queste ultime domeniche che concludono l’ anno liturgico.
Alle vergini è data la possibilità di agire con amore verso se stesse, lo Sposo, il mondo.
L’amore è dato dal Signore gratis; è dato in modo smisurato nella metafora dei talenti da investire. E’ dato senza timori e ci invita a non dichiararci inabili, come spesso facciamo addirittura prima ancora di iniziare ad agire.
Il nostro Re è davvero speciale.
Viene come un pastore per le sue pecore, compie il suo lavoro (ed è un grande lavoratore)
E’ un grande re che si prende le sue responsabilità, con cura e fino in fondo. Se non lo avessimo ancora capito, ce lo ripete ancora, fino alla fine. Vuole dirti: “Se non agisci con amore e per la giustizia ti perdi. Il tuo orizzonte, la tua finalità è il prendere parte con lui, il re pastore, del regno nuovo già qui, ora, in questa vita. Se non prendi l’olio, se sotterri il talento, se non ti ami e non investi nell’amore verso chi è più in difficoltà, te per primo, ti perdi qualcosa, ti escludi da questo regno, ti sei già separato dal resto”.
Il nostro Re è più di una parte, è universale.
Vuol dire che è per tutti e che non esclude nessuno. Chi si tira fuori, lo fa per sua scelta o forse solo per triste, drammatica inconsapevolezza di quanto Amore e non Giudizio, ci sia nello sguardo del Padre. Solo nelle relazioni sane ci si salva. Il Re universale vuole portare tutti alla vita vera e, fino alla fine, è con te, per non farti essere il ‘solito caprone’, potremmo dire con il sorriso sulle labbra. Con William Blake comprendiamo meglio il senso di questa ultima parabola: “Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e lì ho trovato tutti e tre”.
Chi vuole prendere parte al regno universale di questo Re più che speciale, lo segue nella via che egli stesso ha segnato e si riconosce come essere umano in relazione. Ciò dice-bene (bene-dice) la propria vita. Chi si chiude in se stesso, si sotterra, dice-male (male-dice), bruciando rovinosamente i propri giorni.
Il mio Re è un pastore amorevole.
Mi custodisce insieme ai fratelli più invisibili al mondo.
Dio mi ama, prezioso ai suoi occhi come prezioso per il Pastore è tutto il gregge e che tutto offre per l’unicità di ciascuno. E proprio quando divento stracolmo, debordante di gratitudine e meraviglia, vedo che non c’è più separazione tra me e gli altri, non c’è nulla di più naturale che sostenere gli altri, perché ciò che dono, migliora gli altri e me all’istante.
Quella che ci fa soffrire di più la pandemia, per esempio nel distanziamento tra noi, ci fa desiderare di più il suo contrario, perché così si propagherà l’amore di Dio, anche nelle forme che possiamo trovare comunque possibili oggi.
Non potremmo essere più sollecitati di così: ciò che ci viene tolto, ci faccia sentire il fuoco della mancanza così forte da renderci inquieti e arditi , per ritornare lì dove il Re vive già per costruire il Regno di Amore e di Pace, oggi.
“Il regno dei cieli è simile a dieci vergini… ”è l’apertura del Vangelo di domani, 8 novembre (Mt 25 1-13). Cinque di esse sono stolte e cinque sapienti. Sembra la rappresentazione del mondo di oggi sotto gli occhi di tutti: abbiamo persone di tutti i tipi, pregi e difetti scorrono tra le righe quotidiane e sono esperienza di tutti. Queste vergini hanno tutte delle lampade ossia, partono tutte con la stessa dotazione per andare incontro allo sposo della parabola. Però, non tutte prendono l’olio, che è sempre a disposizione di tutte loro. Appare dunque evidente che la differenza tra le stolte e le sapienti non è su ciò che sono o ciò che hanno, ma su ciò che scelgono di fare, sulla propria volitività, sulla determinazioni delle azioni possibili. Possono essere del regno nuovo se agiscono e se lo fanno con sapienza. Non manca nulla a nessuno. La buona notizia è per tutti: recepire l’invito alle nozze significa essere pronti ad agire. Il vangelo non è un salotto, buono o cattivo che sia, è invece prendersi cura di sé per vivere pienamente le nozze con il Risorto.
L’evangelista Matteo in questo brano, ci dice non è sufficiente essere invitati e rispondere positivamente all’invito. A tutti è concesso sempre di essere vergini, riscrivere sempre la propria vita e in ogni momento, a tutti è concessa la lampada per le vie buie e sappiamo bene come la vita presenta sempre strade difficili. Ma ciò che rende il credente diverso, è l’essere recipiente della sapienza che agisce, che non si trascura, che non rimanda, che ama l’incontro con lo sposo. La sapienza si fa trovare se la cerchi. Ti anticipa, se la desideri. Se ti svegli presto, la trovi alla porta. Essa stessa vuole inondarti con ogni benevolenza (Cfr Sap 6, 12-16), ma devi scomodarti, rompere gli schemi di convinzioni e credenze, renderti nuovo. In altre parole, lanciarti con fiducia verso le tue capacità nelle braccia amanti di Cristo. Il regno dei cieli può essere qui, ora, in questo momento, puoi essere la sposa più felice e non autoescluderti senza rimanere fuori dalla porta, se provvedi tu a ciò che ti serve davvero per questo incontro. A che serve lamentarsi delle cose che non vanno bene se non mettiamo olio in abbondanza nelle nostre lampade. La luce della Parola, dall’olio di una fare sapiente, illumina e riscalda il tuo cammino, anche in questo tempo di pandemia.
In questa domenica le letture rinnovano le prime declinazioni pratiche dell’amore. Nascono banalmente da una provocazione a cui ci hanno abituato i farisei in queste ultime domeniche: «Qual è il comandamento massimo?» gli chiede un dottore della legge. Gesù non si sottrae alla domande e richiama lo ‘Shemà’, la preghiera più ripetuta in Israele: il Signore è uno, lui solo ama con tutto te stesso. Poi integra questo comandamento dicendo anche il come, perché non rimanga solo uno slogan, cui tanto siamo ormai abituati. Similmente, ama te stesso e così gli altri. Ama Dio, allo stesso modo, ama te stesso e, così, anche gli altri.
Sono qui accanto a te
Dice Dio, parafrasando la prima lettura: io ti amo quando ti senti forestiero nel mondo e nelle tue giornate, quando ti senti orfano, quando ti senti maltrattato dagli eventi. Ti amo in modo gratuito, senza interessi e così sei ricco abbastanza. Usa la stessa misura verso chi ti è accanto: questo è il massimo per te e per chi ti è vicino. Amati senza giudizio e con generosità. Sii grato per ciò che ricevi e allo stesso modo relazionati con chi incontri. Questo è il massimo che è difficile inserirlo nella categoria dei comandi poiché trabocca di solo amore. L’esercizio è teoricamente semplice: ricevo da Dio che mi colma di grazia eccedente che straripa al mondo.
Nessuno si salva da solo
Il mondo ha bisogno di cristiani così. Ad esempio, l’ultimo rapporto Caritas del 17 ottobre u.s., ‘Gli anticorpi della solidarietà’, ci parla, tra l’altro, di “nuovi poveri” con un incidenza che passa dal 31 al 45% tra quelli che si rivolgono alla Caritas. Ci sono anche circa 62mila volontari che cercano di amare se stessi amando queste persone, in cui amano Dio.
Non siamo poi così lontani se guardiamo alle carezze che offriamo in casa, agli sguardi sorridenti che regaliamo per strada, dietro le nostre mascherine, ai pensieri/preghiere che pronunciamo per gli altri. Se Dio è così per noi, possiamo esserlo anche noi per gli altri.
Essere coerenti ci rende certi della testimonianza
Nella seconda lettura san Paolo ci dice proprio questo: abbiamo seguito l’esempio del Signore e noi possiamo diventare modelli per la nostra comunità di questo nuovo modo; la nostra comunità stessa diventa modello di accoglienza dello straniero nei prossimi giorni. Si diffonde con l’esempio oltre le parole.
Fatti amare da Dio e ama i tuoi fratelli, come sei e come puoi.
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
Conclusioni.
Al termine delle considerazioni presentate in queste pagine, è possibile riprendere alcuni passaggi, come degli attrezzi, degli strumenti da utilizzare in un laboratorio di virtù. Delle virtù, se ne sente parlare sempre meno nel linguaggio ordinario, come se fosse un termine anacronistico e che invece appare sempre più necessario. Possono le virtù di padre Paolo, del monastero di Mar Musa, essere utili al nostro vivere quotidiano, per questo nostro mondo?
Non possiamo affidare questo momento storico così importante a pochi dilettanti, vittime, in diverso modo, di paure più o meno esplicite cui spesso, proprio per queste paure, tendono ad aggredire, piuttosto che ad ascoltare. Non possiamo farci annoverare nemmeno fra quelli che presi dal vortice del quotidiano, dimenticano se stessi. L’appello a formarsi senza farsi imbonire, a sapere senza dare per scontato, a disporsi a conoscere l’altro senza chiudersi nei propri pregiudizi, a riconoscere valori comuni a tutti, credenti e non, deve e può avere risposta in tutti gli uomini che vogliono essere migliori, che applicano semplici virtù di buon senso, incamminati verso il bello, il bene, il giusto, il vero… verso un ‘ethos globale’ di riferimento: ci sono molte persone su questa strada. È questo un ‘monachesimo’ possibile che corregge i falsi appelli all’andare via da se stessi, verso consumismi, dispersioni esistenziali, superficialità. In un monastero interiore, spirituale in dote ad ogni uomo, dove poter essere in ogni città, in ogni luogo di vita.
Occorre mantenere questo spazio come il più ambito.
Chi si sente interpellato trova in questo itinerario, anche un luogo, esteriore a sé ma che lo riconduce costantemente a se stesso: è l’esperienza di tutti i giorni, la vita quotidiana del lavoro, della famiglia, delle relazioni. Non c’è pratica migliore che imparare a farsi coinvolgere da ciò che accade per esprimere il senso di questo ‘andare verso’, poiché un’etica globale agisce tutti i giorni in termini locali, nelle righe della storia personale di ciascuno. È qui che avviene il primo vero laboratorio dove la parola presa, ascoltata e detta, si declina in realtà. È qui che sfumano le paure dell’altro, il pregiudizio. Un tempo costante, maggiore, dove l’incontro avviene in vicinanza e non sempre è desiderato, scelto o voluto. L’incontro vero, se non lo si sfugge, riconduce a me. L’altro in qualche modo mi ‘appartiene’ e, nella sua diversità, posso riconoscere il mio espresso e quanto ancora mi resta da svelare. L’altro può rendermi migliore in una relazionalità che è sempre da compiersi perché ancora inedita. Dall’incontro con l’umanità più diversa fino agli incontri con gli avvenimenti e il creato: tutto può riportare me stesso ad un nuovo ‘fare’. Ripartire dall’empiria è anche questo. In questo altro, c’è il musulmano, c’è l’ebreo… Questi uomini che si ‘fanno’ incontro, attraverso la loro esperienza umana possono proporre e progettare anche Istituzioni nuove, soprattutto quelle che fin d’ora si muovono per conoscere e far conoscere l’altro che viene così come è, nelle vie di razionalità relazionale.
Perché questo incontro avvenga, il dialogo è un metodo. Il vantaggio di uno strumento è che oltre a velocizzare i passaggi del tuo lavoro, mentre ti rendi specialista, non ti lascia più e non lo lasci più. Gli incontri fatti di dialogo sono intensi, vivono di empatia, mettono ciascuno degli interlocutori sempre in una posizione nuova, ri-generante.
Può il terrazzo di Mar Musa, dove s’incontrano all’imbrunire gli ospiti proveniente da vari luoghi, di diverse religioni, essere lo spazio di dialogo come proposto in queste pagine, più dei canali virtuali della globalizzazione? Può quel terrazzo di Mar Musa essere uno spazio laboratoriale per le terrazze e per le piazze d’Europa e del mondo?
Papa Francesco si fa interprete di questo metodo del dialogo:
“Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni»[1].
E ancora, l’attuale Pontefice:
“La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. […] Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale”[2].
Senza dialogo c’è un terrore che rimane dentro, che può rimanere lì o può manifestarsi fuori, nell’espressioni più disparate e, a volte, disperate. Il dialogo interiore come una forma di preghiera, espressione di un incontro, dell’Incontro, è fonte di una buona operosità. La concretezza del lavoro comune a Mar Musa, può essere segno di un’operosità dialogante necessaria che segue le nostre liturgie. È un fare pratico con-creativo, costruttivo e sociale che rende visibile l’esperienza dell’Incontro e degli incontri. Incontri che si celebrano sul terrazzo del Monastero per celebrare un’amicizia fraterna che, alla sera della giornata canta ‘come è bello stare insieme come fratelli’, nonostante le fatiche appena trascorse.
Paolo Dall’Oglio, partecipando alla Marcia per la Pace di Lecce, il 31 dicembre 2012, condivise il sentimento che lo univa al popolo siriano e, sebbene espulso, maturava l’idea di ritornare nella terra martoriata per ‘amore del suo popolo’. Era quel popolo che lo richiamava alla responsabilità personale, più che la paura di tornare, più che la possibile restrizione della sua libertà, più che la morte stessa che poteva subire, narrava che non poteva non testimoniare quanto accadeva in Siria, non solo in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto in quella terra martoriata. Dialogava qui, ma sentiva la responsabilità sociale di dialogare lì, anche se non voluto dal regime. Ci insegna così ancora oggi un modo nuovo di contemplare, di unirsi alla preghiera-grido delle vittime dell’odio generato da interessi di parte, ci dice di un’accoglienza abramitica professata e possibile anche se, purtroppo, non abbiamo più sue notizie.
Il prezzo della sua assenza vale il biglietto del nostro impegno a cercare e trovare vie di Dialogo in ogni nostra circostanza.
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
La singolarità del monastero di Mar Musa Alhabashi, San Mosè l’abissino.
La vita monastica di questo luogo risale al VI secolo e sarebbe stata legata al rito siro-antiocheno. Dall’iscrizione sul muro si legge che la chiesa attuale del monastero è del 450 dell’Egira (1058 d.C.).
Caratteristica dell’iscrizione sono le parole tipicamente coraniche <<In nome di Dio il Misericordioso, il Compassionevole>>. Nel XVI secolo il monastero fu in parte ricostruito e ampliato anche se poi fu abbandonato dai monaci che vi si riunivano la domenica mattina e che forse trovavano una qualche difficoltà a farlo in quelle condizioni. Verso il 1850 la proprietà passò all’Eparchia siriaca-cattolica di Homs, Hama e Nebek e la parrocchia locale cercò di conservarla al meglio poiché cristiani e musulmani spesso vi si recavano per visite devozionali. Particolare rilievo assumono gli affreschi e, nel terzo strato, dopo gli ultimi restauri, si legge:
“Terminato nell’anno seicentoquattro [dell’Egira, 1208 d.C.] per mano del decoratore Sergio figlio del prete Ali, figlio di Barran. Dio abbia pietà di lui e di tutti coloro che vengono in questo oratorio benedetto e fa’ che siano guariti. Amen”[1].
Come dicevamo, da diversi lustri padre Paolo Dall’Oglio si impegna per ottenere fondi al fine di recuperare pienamente la struttura, far giungere l’acqua, l’elettricità, rianimare l’intera vallata. In vario modo ha cercato di coinvolgere il governo siriano e anche quello italiano, recuperando una parte dei fondi necessari che pure arrivano da diversi benefattori del territorio e anche dall’Europa. Si è mosso anche nella direzione del riconoscimento formale di questa esperienza, non sempre facile ma che, comunque, inizia a ricevere i primi riscontri[2].
La comunità è composta[3] da una decina di persone di diverse nazionalità di cui due presbiteri e due donne. È quindi mista, interreligiosa, consacrata al dialogo islamico-cristiano.
La vita comunitaria inizia alle ore 7 del mattino per bere il matè[4]; dalle ore 7:30 alle ore 9:15, preghiera e catechesi in chiesa; alle 9:30 prima colazione con gli ospiti di un giorno, di una settimana, di un mese, di un anno… si prosegue con i lavori e le mansioni di ciascuno fino alle ore 14:30. Dopo il pranzo ognuno è libero anche se molti proseguono i lavori iniziati al mattino. Alle ore 19 il monastero si immerge nel silenzio più assoluto per l’ora di meditazione. Segue la messa in arabo. Dopo la cena sobria, le giornate si concludono con momenti di fraternità dove, pur provenendo da parti diverse, chi ci è stato dice che ci si capisce lo stesso.
Ciò che caratterizza la comunità monastica al-Khalil, può essere sintetizzata in tre priorità e un orizzonte[5]:
1. la vita contemplativa
2. l’impegno nel lavoro manuale
3. l’ospitalità abramitica.
La prima priorità, la vita contemplativa, trae ispirazione dalla tradizione siriaca e dal contesto vicino orientale e arabo islamico.
L’impegno nel lavoro manuale parte dall’esempio della famiglia di Nazareth, che unisce in sé l’esperienza ‘conclusa’ dove si unisce corpo e spirito, la materialità e l’orizzonte del Regno.
In ogni epoca i monaci hanno praticato l’ospitalità; “ospitalità fatta di servizio, misericordia e perdono, ospitalità di saggezza e direzione spirituale, ospitalità della mensa comune e del silenzio, ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel bisogno, il suo carisma particolare e la sua sete spirituale”; un’ospitalità abramitica.
L’orizzonte è quello di una speciale consacrazione all’amore di Gesù Redentore per i musulmani. In questa cornice, la comunità monastica si pone come ‘lievito evangelico nella comunità musulmana’ con uno spirito di ‘mutuo amore nella considerazione e nel rispetto reciproco’ tenendo con giusta attenzione questo lavoro di dialogo che consente anche agli stessi cristiani di avere un modo in più per restare in quel territorio.
Nella direzione di questa considerazione e nel rispetto reciproco, padre Paolo riconosce tre funzioni dell’islam[6].
La prima riguarda la produzione delle grandi Scritture. Attraverso il Corano è come se si fosse completata una tappa umana. Non che non vi siano nuovi testi sacri o gruppi religiosi, ma questi appaiono piuttosto come uno ‘sciame sismico’ che segue un grande terremoto. In questo senso Muhammad è l’ultimo dei profeti e “ciò non vuol dire che la dimensione profetica dell’umanità si è esaurita per sempre, al contrario. Deve essere riscoperta ed è una responsabilità condivisa da tutti”.
La seconda funzione vede la ‘fede come rivelazione naturale’. Riprendendo Louis Massignon in Les Trois prières d’Abraham, che dice: “Se Israele è radicato nella speranza, e la Cristianità votata alla carità, l’Islam è centrato sulla fede”, il musulmano vede Abramo come la persona a cui Dio affida una rivelazione. Abramo è l’amico di Dio ed è un modello di un’alleanza in cui la fiducia, diciamo reciproca, è di ogni giorno, di ogni momento. Ma è anche l’alleanza come obiettivo finale, escatologica e, quindi, di fede.
Vi è poi una terza funzione che è quella della sfida. L’islam da sempre per i cristiani è stato percepito come una sfida. Ma possiamo dire che la stessa cosa sia accaduta ed accada per il mondo dove vivono più numerosi i fedeli dell’Islam quando osserva il mondo occidentale (nel proprio immaginario ‘cristianizzato’), che si avventa nelle dinamiche della propria realtà araba ad esempio. Padre Paolo ci fa riflettere anche in una direzione diversa quando ci invita a leggere la storia del medio evo, per esempio. Come sarebbe andata a finire la storia, quale deriva avrebbe avuto la fede cristiana senza il ‘limitare’ del mondo dei seguaci di Mohammed? Parla di quel mondo cristiano, rappresentato in diversi tra affreschi e mosaici, di una forza imperiale e totalizzante impressionante, certa non di matrice strettamente evangelica.
Quel limite, per gli uni e per gli altri, rappresenta un’opportunità per ritrovarsi nella propria fede e nell’incontro con l’altro. La sfida iniziale non è dunque quella di convertire o l’uno o l’altro, ma è quella di convertirsi all’opera di Dio[7].
Le risposte non verranno da archeologia o storia, da dogmi o teologie, dalle sole istituzioni o dalle religioni; le risposte saranno date da incontri che faranno storie e teologie con uomini religiosi nelle istituzioni. Incontri che sono già iniziati a Mar Musa, come nel mondo, e che hanno bisogno di maggiore continuità, oltre che di essere rappresentati in modo più deciso.
Padre Paolo ha voluto coniare un termine che nella comunità di Mar Musa riecheggia costantemente: Islamofilia[8]. Al contrario di islamofobia, paura per l’islam (per tanti aspetti deriva fobica accecante), islamofilia completa in qualche modo il percorso iniziato con il proprio viaggio verso l’Islam; potrebbe diventare paradigma di un nuovo viaggio personale verso cui appuntare altrettanto nuove esperienze di dialogo.
Negli scritti e nelle interviste rilasciate da padre Dall’Oglio, egli ribadisce che Gesù non ha fondato immediatamente una religione. All’interno del mondo ebraico si è spinto oltre la legge reinterpretandola, dandole una funzione nuova che superasse il legalismo e il ritualismo fine a se stesso. Allo stesso modo la Chiesa, ha reinterpretato la vita stessa di Gesù spingendosi oltre quel mondo proprio grazie allo Spirito di Gesù, incarnandosi in culture diverse. Essere cristiani non significa inserirsi in un meccanismo di proibizioni e di sterili ritualità. Mediante la Chiesa il cristiano si avvia nel mondo non come straniero, ma come cittadino.
“Ma da dove vengono questa autorità di Gesù, questa libertà che lo conduce a reinterpretare la Legge e i profeti e a pretendere di dare loro compimento? Esse risiedono nella sua relazione col Padre nello Spirito. Per il discepolo di Gesù, si tratta di scendere al fondo di sé, fin dove si trova il carattere impresso nell’anima dal sacramento del battesimo. Là l’anima è stata unità alla consapevolezza di sé di Gesù di Nazareth. (…) Gesù è l’atto di Dio che va incontro all’uomo e mediante l’iniziazione cristiana, soprattutto mediante i sacramenti, il discepolo ha accesso dall’interno alla vita di Gesù”[9].
C’è un primo Incontro che rende possibile gli altri incontri. Questo Incontro richiama la prima priorità della comunità monastica di Mar Musa. È posto a principio e cardine dell’esperienza di padre Paolo. È il carattere, è il sigillo del cristiano che non può aver paura dell’incontro con chiunque altro, dopo essere stato ed essere con l’Altro. La cosa più entusiasmante è che è possibile vivere questo non in modo estemporaneo e saltuario, ma nella ferialità, nel quotidiano, con una possibilità infinita di ripetersi, di allontanamenti e di riavvicinamenti.
L’impegno del lavoro manuale offre una concretezza e, come dei monaci in città, è come se ogni giorno, in tutte le mansioni ordinarie, queste possibilità d’incontro, apparentemente così lontane nello spirito, fossero continuamente rese possibili per merito delle relazioni quotidiane. Più queste relazioni diventano incontri decisamente umani, più si diventa divini. Più si rinnova quest’esperienza, più si diventa rinnovati. L’altro, trova spazio nell’’ospitalità abramitica’ di un dialogo.
“Un dialogo di successo lascia un senso di comunione: ciò che sembrava contrapposto è ormai in armonia. Ciò che era diverso è diventato complementare. Ciò che faceva paura da quel momento in poi nutre la fiducia. Ciò che era da perdere, i pesi reciproci, è perso per davvero. Alla fine di un buon dialogo, ognuno copre il peccato dell’altro, perdona se stesso. Non siamo più estranei gli uni agli altri: formiamo un solo popolo.
Il mondo moderno è un’arena di sordi che parlano tra loro. Come in quei talk show in televisione dove il presentatore si diverte ad attivare la follia verbale degli interlocutori, le parole del mondo sgorgano ma nessuno le ascolta.
Se questi discorsi non ci interessano, se non ci attirano, è perché proviamo un senso di insofferenza, che proviene da una paura profonda, lontana: quella che Dio ci abbandoni, che non ci sia fedele. Ecco perché cerchiamo di fare meglio di lui, proteggiamo le nostre identità, i nostri particolarismi, ci attacchiamo a quello che sappiamo.
Ma Dio è fedele! Ogni disegno di vita ha una bellezza straordinaria”[10].
[1] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, Jaca Book, Milano, 2013, 2-3.
[2] Nel febbraio del 2006, il Vaticano ha approvato la Regola della comunità. A novembre la Fondazione euro-mediterranea ha consegnato il premio Anna Lindh per il dialogo fra le culture; nel 2009 padre Paolo riceve la laurea honoris causa dall’Università di Lovanio e di Leuwen per l’azione della comunità a favore del dialogo islamico-cristiano.
[3] Attualmente, oltre a Mar Musa, la comunità ha un monastero in prossimità della città Al-Qaryatayn in Siria (dove in questo periodo sono accolti molti rifugiati) e uno nel Kurdistan iracheno; da poco la comunità dei postulanti ‘San Salvatore’ di Cori (LT) in Italia è diventata anch’essa monastero.
[4] Si tratta di un infuso che si beve prevalentemente in America latina ed in Siria.
[5] Cf P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, op. cit., 185.
[6] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, 30-31
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
La Siria e la questione siriana.
Dopo la fine dell’Impero ottomano, le autorità coloniali britanniche e francesi si riuniscono a Sanremo, in Italia, e spartiscono i territori del medio oriente in Mandati. Nel processo di divisione, viene stabilito che la Siria sarà sotto il mandato francese.
La posizione geografica strategica, per interessi economici e militari, ha sempre creato grandi tensioni in alleanze che oggi appaiono molto variabili a seconda dei diversi fini, espliciti e meno espliciti.
Nel 1946 le ultime truppe francesi lasciano il territorio nazionale e viene proclamata l’indipendenza della Siria. Il 17 aprile diventerà giorno di festa nazionale. Nel 1963 un colpo di stato condotto dal generale sunnita Ziad Hariri, porta al potere il Consiglio nazionale di comando della rivoluzione e il suo presidente Lu’ayy Atassi, del partito Baah. Il 13 novembre del 1970, Hafen al-Asad prende la guida del paese, spodestando la dirigenza del suo partito. Dal 1976 (e fino al 2005) la Siria interviene direttamente nella guerra in Libano e sosterrà in qualche modo la strage di Sabra e Shatila del 1982. Farà parte della coalizione occidentale che combatterà Saddam Hussein durante la prima guerra del golfo (1990-1991).
All’inizio del 1994 muore Bassel al-Asad figlio di Hafen, che era stato designato alla guida del paese (sebbene secondogenito ma più incline alla politica del primogenito). Così alla morte di Hafen al-Asad, nel 2000, sarà Bashar a succedergli, nonostante non fosse stato la prima scelta del padre sebbene primogenito.
Nel marzo del 2011 iniziano le prime manifestazioni pubbliche contro il regime, in seno al più ampio movimento conosciuto in occidente come ‘primavera araba’, dando vita ad una guerra civile complessa, così come complesse sono le vicende narrate e non. Di fatto, nel 2012 le manifestazioni si tradurranno in scontri fino ad una guerra civile aperta dove Aleppo e non solo, rappresenta ancora oggi l’apice delle violenze tutt’ora in corso.
Il presidente siriano, in una intervista rilasciata al quotidiano americano The Wall Street Journal il 30 gennaio 2011, afferma che la Siria è un’eccezione rispetto alle rivoluzioni di Egitto, Tunisia e Yemen.
“La Syrie est en effect une ‘exception’. Mais elle est également une ‘exception’ si l’on observe l’attitude arabe et international â son égard, qui oscille entre hésitation, division, conflits et impuissance à régler la situation”[1].
Di fatto, ad oggi, non si è addivenuti a nessun risultato significativo a causa dei veti incrociati dei paesi arabi in qualche modo coinvolti, della Turchia, della politica estera europea e francese a seguito di quella USA e della Russia. Gli attori internazionali che intervengono, o non intervengono, a seconda degli interessi che li muovono, lasciano scorrere ancora sangue innocente anche con l’uso ripetuto di armi non convenzionali e proibite dai diversi trattati internazionali.
La Siria non è solo un serbatoio di petrolio, ma la sua posizione è un crocevia di interessi dicevamo. Se da una parte, per esempio, Arabia Saudita e Qatar hanno armato siriani e mercenari per evitare un paese democratico nella zona[2], dall’altra, sempre ad esempio, c’è un immobilismo diplomatico tra Israele e Siria per un confine conteso dal 1967 dove nessuno dei due attori arretra di un millimetro e la strategia americana ne fa uno dei suoi baluardi in medio oriente[3]. E gli esempi potrebbero essere moltiplicati per tutti gli intrecci di veti e controveti ora da parte di uno, ora da parte degli altri.
In questo scenario, il 29 luglio 2013, viene rapito padre Paolo Dall’Oglio, che precedentemente si era espresso in maniera critica verso le posizioni assunte da Bashar al-Asad nella gestione evoluta della primavera araba siriana. Per Paolo era importante il popolo e la possibilità che questo potesse esprimersi in maniera democratica, mentre esso diventava sempre più oggetto di sofferenza.
Gli ultimi eventi di questa primavera, ribadiscono la complessità della situazione e la sofferenza cui continua ad essere sottoposto il popolo siriano, soprattutto nelle persone più deboli come i bambini, le donne, gli anziani…
[1] Z. MAJED, Syrie la Révolution orpheline, L’orient des livres, France, 2014, 23.
[2] Cf R. CRISTIANO, Medio oriente senza cristiani, dalla fine dell’impero ottomano ai nuovi fondamentalismi, Castelvecchi, Roma 2014
[3] Cf L. GRUBER, Prigionieri dell’Islam, Terrorismo, migrazioni, integrazioni: il triangolo che cambia la nostra vita, Rizzoli, Milano, 2016, 184.
Ormai sono passati 7 anni dalla scomparsa in Siria del gesuita padre Paolo Dall’Olio. Da allora si sono alternate diverse voci in merito, ma non ci sono certezze in nessuna direzione. Amando gli abitanti di quel paese, se ne fece carico tanto intensamente da esserne rapito allora e fino ad oggi, per giocare con le parole, così come anch’esso amava fare in talune circostanze. Ma niente in realtà fu un gioco per lui da quando decise che l’Islam, i figli di Ismaele e la loro terra, sarebbero diventati la sua nuova casa, i suoi fratelli e la sua nuova nazione.
Padre Paolo Dall’Oglio è nato a Roma nel 1954 ed è il quarto di otto fratelli. Nei vissuti di Paolo i tre fratelli maggiori creavano un gruppo a se stante, mentre la nascita dei gemelli e delle sorelle più piccole, sembravano attrarre maggiormente l’attenzione della mamma che comunque in maniera discreta e rassicurante lo ha sempre accompagnato con l’amorevolezza che le era propria. Raccontandosi nel periodo dell’infanzia, si ricorda come di un bambino irruente e incline alla solitudine e, quella che per i suoi educatori scolastici veniva definita come una manifestazione di un ‘bambino difficile’ lui, in diverse occasioni, l’ha chiamata ‘ipersensibilità’.
Ha vissuto la sua adolescenza come tanti del suo tempo, con gli amori intensi che contraddistinguono il periodo, con l’impegno politico che veniva assunto come totalizzante alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, con le alterne questioni di fede, scosse dalle vicende di una Chiesa che si stava rinnovando in molte delle sue forme. Dopo la maturità, per una serie di circostanze, il viaggio insieme con tre suoi amici, lo conduce in Turchia dove ebbe il primo contatto in assoluto con l’oriente musulmano. Da lì, attraversando la Siria, il passo è breve per giungere fino Gerusalemme, pensarono. Ma non vi arrivarono a motivo di un fermo da parte degli israeliani che li bloccarono al fiume Giordano, in Giordania.
Alla fine del 1974, si rivolge a padre Giuseppe della Compagnia di Gesù (gesuiti), cappellano dell’Università, determinato com’era e convinto da alcuni episodi particolarmente importanti di quel periodo, a diventare gesuita. Dopo il servizio militare e prima di entrare in noviziato, decise di andare finalmente a Gerusalemme per visitare diversi luoghi della Terra Santa. Meditò profondamente il senso dell’incarnazione di Gesù in un popolo, quello ebraico, coltivando l’idea che anche la Chiesa ‘doveva potersi incarnare radicalmente in tutti i popoli’.
Nel 1975 inizia il suo cammino di noviziato e, durante il primo dei due anni, matura cinque punti che diventeranno come dei cardini del suo percorso di religioso:
1. Continuare con gioia il percorso intrapreso nella Compagnia di Gesù;
2. Mantenere intatta la disponibilità ad andare ovunque nel mondo con coraggio e fede (la parola ‘Islam’ gli apparve chiara).
3. Andare verso i poveri, i diseredati ed anche gli ‘assetati di Dio’.
4. Superare il desiderio di successo, di realizzare cose grandi e importanti, a vantaggio della capacità di imparare sempre più ad essere ‘un piccolo servitore, un umile operaio al lavoro nella vigna del padrone’.
5. Partecipare alla croce del Signore.
Durante il prosieguo del secondo anno, progressivamente elaborò il desiderio di Islam e che ciò poteva realizzarsi, passando attraverso l’ebraismo e attraverso la comprensione della profondità dell’inculturazione del Verbo nell’ebraicità. Quel desiderio, divenne il sogno di far coesistere le tre religioni monoteistiche in se stesso.
La Compagnia di Gesù nella sua storia è sempre stata posizionata negli avamposti della Chiesa. Ha sentito e sente l’impegno per essa tanto che il suo fondatore, Sant’Ignazio di Loyola, nei suoi Esercizi spirituali, ha definito delle ‘regole’ circa il ‘sentire cum ecclesia’[2] come un modo per essere più intimamente legata ad essa. San Francesco Saverio, Matteo Ricci, le Riduzioni del Paraguay, sono solo alcune delle persone e delle situazioni in cui i gesuiti, in virtù della propria spiritualità e della loro missione, hanno offerto il proprio carattere missionario in nuovi territori culturali e spirituali. All’interno della Chiesa continuavano e continuano a crescere le interpellanze di un dialogo con le altre espressioni delle fedi cristiane e con le altre religioni. I gesuiti stessi hanno contribuito e contribuiscono con diversi autorevoli pensatori e teologi in questa direzione, alla ricerca di nuove vie di dialogo e di possibili incontri.
Il percorso di Paolo nei gesuiti viene accolto e sostenuto Attraverso un Assistente del Padre Pedro Arrupe[3]. Così Paolo, dopo aver approfondito la sua conoscenza del francese facendo il cameriere a Parigi, fu inviato in Libano per imparare l’arabo. Di lì fuggi nel 1978, costretto dagli eventi, mentre imperversava la guerra e visse questo come una cocente sconfitta personale. Tuttavia, studiò filosofia, arabo a cultura islamica a Napoli e ottenne una borsa di studio dal Ministero della Cultura israeliano che gli permetteva di andare a Gerusalemme per imparare l’ebraico. Al termine di questi studi promise di offrire ‘tutta la sua vita per portare la pace tra i figli di Abramo’. Successivamente, fu inviato a Damasco dove, mentre si preparava al sacerdozio, scelse di appoggiarsi a una Chiesa cattolica d’Oriente scegliendo il rito siriaco che, a suo avviso, gli sembrava più vicino al ‘respiro’ della preghiera musulmana.
Dal 1982, la storia di padre Paolo s’intreccia con quella di Mar Musa ed egli stesso così racconta:
“Durante l’estate del 1982, mentre ero in viaggio nel Vicino Oriente, scoprii una vecchia guida della Siria pubblicata nel 1938. Sfogliandola, trovai un paragrafo che descriveva un monastero cristiano, abbandonato da due secoli in mezzo al deserto. Il luogo si chiamava Deir Mar Musa el- Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino[4]). Per portarci i viaggiatori, la guida proponeva di noleggiare un mulo a Nebek, la città più vicina, e di percorrere una pista attraverso il deserto. Il tragitto durava tre ore. L’idea mi piacque infinitamente”[5].
Trovò un luogo abbandonato, distrutto… ma anche pieno di ‘presenze’, di personaggi affrescati e di essi, o di ciò di essi rimaneva, che gli chiedevano che cosa ci facesse lì. Era notte, era solo e, prima di tornare a Roma, cercava domande e risposte nel deserto e nel silenzio.
Da allora, la sua vita di prete e di sacerdote della Compagnia di Gesù, ha conosciuto momenti belli e momenti difficili. Menzioniamo tra i tanti, il ‘terzo anno di probazione’[6] nelle Filippine, dove ebbe contatto, tra l’altro, con una porzione di mondo medio-orientale non arabo. Di ritorno da quell’esperienza, si fermò in India dove risuonò in lui lo spirito del Mahatma Gandhi che rifiutava qualsiasi spartizione dell’ex colonia inglese per motivi religiosi: molti hanno definito il padre dell’India come una sorta di avanguardia spirituale non solo per quel territorio, ma per tutta l’umanità.
Per padre Paolo, in tante circostanze, si sono aperti conflitti interiori che lo hanno squarciato da dentro, tra l’obbedienza ai suoi superiori e quella alla sua coscienza. In diversi momenti critici ha tenuto fede a se stesso e alle proprie intuizioni. Come quando di ritorno dalle Filippine e dall’India, contrariamente a quanto indicato dai suoi superiori, dopo 10 anni di cura verso Mar Musa, decise di stabilirsi definitivamente lì. I conflitti, padre Paolo li viveva anche in alcune relazioni del posto che poco gradivano quanto stava avvenendo in quel monastero che sembrava definitivamente morto nel deserto e che invece tornava in vita proprio grazie alla sua caparbietà. Così, anche al di fuori del suo travaglio interiore e in mezzo alle accese dispute che venivano sollevate dall’opera che si andava compiendo, il monastero di Mar Musa ha innescato un percorso possibile che altri, con lui e dopo di lui, non hanno esitato ad intraprendere.
[1]I tratti di questo breve profilo sono ricavati da G. DE MONTJOU, Mar Musa, Un monastero, un uomo, un deserto, Paoline, Milano, 2010.
[2] Cf Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 352-370.
[3] In quel periodo Preposito Generale dell’Ordine dei gesuiti.
[4] Di lui si narra che fosse stato un principe, figlio di un re di Etiopia e che rinunciò al suo regno per vivere da eremita. Dopo essere divenuto monaco scelse come dimora una delle grotte che circondano il monastero.
[5] P. Dall’Oglio, L’uomo del dialogo, a colloquio con Guyonne de Montjou, Paoline, Milano, 2014, 21.
[6] Per i gesuiti è l’anno che completa la lunga formazione attraverso un nuovo studio dei testi che riguardano l’Ordine, la spiritualità con un nuovo mese ignaziano insieme ad una esperienza apostolica pastorale.